venerdì 22 febbraio 2013

Caro agli dei... - Intro: La Sindrome di Tom Sawyer


LA SINDROME DI TOM SAWYER

Ovvero

DELLA MORTE E DI ALTRI TEMPORANEI INCIDENTI:

ALCUNI MODI DI SFRUTTARE LA MORTE COME MECCANISMO NARRATIVO

NEI FUMETTI SUPEREROISTICI

Ovvero

ANCHE NELL’EPITAFFIO DI CB

SERVE UN LUNGO ARTICOLO PALLOSO A TEMA

A cura di E. Marica





Cacchio, che sottotitolo lungo ha questo dossier!
E anche il dossier è troppo lungo!
Dottor J. Frink

0. La più antica professione del mondo – (Un lungo, necessario preambolo psico-(pato)-sociologico e anche nu poc’ filosofico)

Perché un dossier sulla “morte come meccanismo narrativo nei fumetti superoroistici”?
Ma perché di morte e morti sono zeppi gli albi dei supereroi! Lo sono fin da quando è terminata l’innocenza degli anni ’50 e l’irruzione della Marvel (e del conseguente “realismo”) negli albi dei nostri ipertiroidei ha modificato le regole del gioco.

Prima c’erano sostanzialmente storie a sé stanti, una situazione affrontata da un eroe in un non-tempo, con regole non solo fisiche, ma soprattutto psicologiche, che non consentivano la presenza della morte. Buoni contro cattivi, distrazione assoluta, il cattivo in galera alla fine dell’episodio, pronto a essere di nuovo in libertà…
Poi le regole sono cambiate, si è cercato più che il sense of wonder di un tempo, il sensazionalistico. E la morte è spesso un argomento sensazionale.

La morte tira, c’è poco da fare.
Dai gruppi rock che non litigano definitivamente prima di avercelo annunciato (magari prima di un disco e di un tour mondiale) ad attori decaduti che sbandierano velleità suicide per attirare di nuovo un minimo di quei riflettori da troppo tempo puntati altrove, la morte (o comunque la fine) fa notizia, è una spinta all’acquisto. Un artista o un presunto tale (meglio se “maledetto”) acquista la definitiva consacrazione solo post-mortem, e ci saranno orde di fanatici del complotto a dire che no, quel “grande” non è davvero morto, l’hanno visto in Iowa o è stato rapito dagli alieni…
La morte è una merce, nel grande mercato della comunicazione, ed è una merce che tira sempre: vogliamo ricordare, solo per fare alcuni passati esempi, che il Poema di Gilgamesh è una ricerca dell’Immortalità che si conclude con un insuccesso? O la morte di Ettore che gli darà onore di pianti…/ … finché il Sole / risplenderà sulle sciagure umane? O quella di Rolando/Orlando? O di Artù?
E ben pochi sono i fondatori o gli dei delle grandi religioni di cui non sia raccontata la morte (o per lo meno la scomparsa da questo nostro mondo del transeunte), morte che diventa sigillo e conferma della propria divinità o del proprio messaggio…

Vogliamo dimenticare, più banalmente e con un taglio più “gossip”, il grande affare della morte di Lady D o di Jim Morrison o di qualche politico? O chi era Brandon Lee prima di morire sul set dell’unico film di successo che abbia fatto (qualcuno ricorda Drago d’Acciaio? Siate seri!)?
Da rileggere le pagine della posta dell’allora “Il Corvo presenta”, zeppe di ragazzi SINCERAMENTE (bisogna sottolinearlo senza ironia) disperati per la morte… di un ragazzo giovane sì, ma che non era NESSUNO per loro, prima della morte prematura. Un ragazzo che loro adoravano e in cui si identificavano non per la personalità che emergeva nelle tre/quattro interviste da lui rilasciate, ma per un personaggio interpretato… e per la morte arrivata proprio quando stava per spiccare il volo.

Chi è caro agli dei muore giovane.

Eighteen ‘till I die.

Live fast, die young and play rock’n’roll…

La morte tira, c’è poco da fare. Perché la morte esce dal sogno dell’impossibile identificazione, per entrare in quella della VERA identificazione.
Mi spiego: quante ragazze degli anni '90 hanno sognato di essere un giorno principesse “modello Lady D”? Basti pensare che dopo la sua scomparsa uscirono vari sdolcinati film sull’argomento “toh! Ero una principessa e non lo sapevo!”.
Ma quante ragazze ne hanno avuto DAVVERO la possibilità? Quante, pur essendo al posto giusto nel momento giusto, avrebbero avuto lo stesso risultato? Idem per i ragazzi desiderosi di identificarsi in Kurt Cobain o, un po’ di tempo fa, in James Dean.

Ma la morte non è un’illusione: si muore tutti, prima o poi. In un modo glorioso o sereno o più spesso anche un po’ squallido e triste, ma si muore tutti, nessuno escluso, ricchi e ricchissimi inclusi.

Neppure le divinità, tutto sommato, sembrano riuscire a sfuggire a questo fato: muoiono gli dei norreni nel Ragnarokkr, muore il Buddha, muore Gesù Cristo (a prescindere dalla fede cristiana: muore in quanto uomo)…
Tutti muoiono, perché all’interno dell’esistenza dell’uomo è meno certa la nascita (si può anche non nascere!), è imprevedibile e contraddittoria la vita, ma la morte… Signori, diciamocelo chiaro: la morte è l’unica cosa certa della vita (sì, anche le tasse, ma solo per chi le paga).
E ogni mito DEVE necessariamente costituire un archetipo di interpretazione del reale, DEVE avere un collegamento con la realtà. Quindi possono essere dubbi alcuni miti sulla creazione, possiamo avere dei dubbi su cosa avviene “dopo il grande salto”, ma non ci sono dubbi sul fatto che si salti. Che si muoia tutti, insomma.

La morte ci rende uguali: la morte di un eroe, di un mito dei nostri o di altri tempi, ci fa davvero identificare con lui. Solo in occasione della morte superiamo quella barriera (sottile apparentemente, ma enorme nella realtà) che ci separa dal nostro idolo per farlo uguale a noi. La sua morte è la perdita di una parte di noi e ci colpisce, perché ci ricorda che anche noi non sfuggiremo. Perché noi, così più piccoli, più insignificanti, più deboli dei nostri feticci, non possiamo riuscire dove anche “loro” hanno fallito.
Il più antico mestiere del mondo è quello del becchino, c’è poco da fare.
Spoon River per tutti, signori.



0.1 La morte dei supereroi – (Il preambolo scende nello specifico)
Specie nei fumetti seriali supereroistici, i nostri amati comics occidentali, quelli che adorano il termine “Next” o “Continua” nell’ultima vignetta dell’ultima tavola dell’albo, la morte è usata a man bassa[1]. Ma la cosa particolare è che la morte dell’eroe non segna QUASI MAI una fine della serie: anzi, molto più spesso è un espediente alla “Beautiful” per ravvivare l’attenzione su una serie in difficoltà di vendita (con titoloni in copertina “Qualcuno non sopravvivrà a questo scontro!”) o in momenti di scarsità di idee o di tentativi di umanizzare un personaggio (e quindi far identificare le giovani o vecchie menti divoratrici della peggiori baggianate con il liso eroe che va in giro con una calzamaglia a raddrizzare torti).

Già, come se il dolore per la morte di un nostro caro qualunque, magari di un tranquillo impiegato, potesse essere rispecchiato dal dolore di un sub-umano che deve nascondersi dietro a un pirotecnico costume esibizionista per salvare il mondo…
Bah, lasciamo perdere.

Anzi, no: la morte di un personaggio è uno strumento narrativo, ma anche un tentativo di far sapere ai lettori quanto era figo il morto, quanto gli altri del suo pseudo-mondo lo rimpiangono e quindi quanto devono essere legati all’eroe morto i lettori, che quindi devono continuare a comprare il suo albo per devozione…
E poi perché quel “Continua?” in fondo all’albo? Quando il tizio-qualunque-tranquillo-etc. muore, beh, si deve pensare alle spese funerarie e basta, ma quando Psicopatico-in-calzamaglia-etc. muore… vuoi vedere che si salva?
Perché il nostro Psycho è immortale, o comunque c’è qualche gabbola relativistica (che so: i buchi neri, il viaggio nel tempo o un’altra dimensione!) che lo farà tornare, più rinnovato e grintoso di prima, per la gioia di grandi e piccini!
E che quindi, magari nella fantasia, anche per il nostro Tizio-qualunque-etc., che pure non vive in un mondo di inchiostro e carta, forse almeno il sogno di una ipotetica speranza di fregare la morte (uhm… e se imparassi a giocare a scacchi?[2]) c’è proprio dietro l’angolo!

La morte è un affare anche nei nostri fumetti. Un po’ tutti prima o poi ci passano (o sembrano passarci) e allora tutti fanno come Tom Sawyer dopo l’avventura nelle grotte: vanno a sentire il proprio elogio funebre (o ci sarà sempre qualcuno che si premurerà di ripeterglielo) e poi tornano in pista come se nulla fosse accaduto.

O no?

Insomma: questo epitaffiale articolo di una fanzine morta da anni che fa finta di resuscitare, si diletterà a mostrarvi alcuni esempi di come la morte sia una grande buffonata, un affare e soprattutto una porta girevole[3], almeno per il mondo dei supereroi cui, per pura pietà vostra e degli alberi abbattuti per fare la carta da fotocopie, ci limiteremo. E prenderemo alcuni albi più o meno famosi per darvi i fulgidi (tragici) esempi.

Porte girevoli, appunto: ma solo sulla carta dei fumetti.



[1] Il caso dei manga giapponesi è ben diverso: le serie prevedono SEMPRE una fine, benché possano prolungarsi (anche indefinitamente) nel tempo. I fumetti seriali italiani o USA, al contrario, terminano principalmente per motivi di vendita; le eccezioni possono essere dovute a ragioni esterne al fumetto stesso (ad esempio la morte di Charles Schultz, che non ha permesso la prosecuzione dei Peanuts) o a prese di posizione epocali e, tutto sommato, tanto atipiche da essere ricordate “negli annali” (come è il caso di The Sandman di Neil Gaiman, concluso per una decisione dell’autore di cui parleremo più avanti). Ovviamente qui stiamo escludendo i progetti che nascono come serie limitata.
[2] Vedi “Il Settimo Sigillo” di I. Bergman
[3] Si ringrazia Peter David (X-Factor n. 70) per la geniale metafora.

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