mercoledì 5 ottobre 2011

Fida Dida (meno 1213.75 al BigT)


Un film muto oggi è ancora possibile.
Così come un film in bianco e nero.
Si può rinunciare a uno degli elementi divenuti parte del linguaggio specifico di un medium? Certo. E questo non implica necessariamente negare il medium nella sua essenza e passare a un altro.

Così si può fare un fumetto senza didascalie.

Il lavoro di Berardi e Milazzo su Ken Parker è, a questo proposito, mirabile. Nella ricerca di un nuovo tipo di linguaggio per il fumetto, più vicino al cinema, tra dissolvenze, montaggio analogico e svolta tra pagina destra e sinistra, i due autori (e i loro collaboratori) hanno eliminato gradualmente le didascalie di passaggio e di collocazione spazio-temporale tanto tipiche del fumetto "formato Bonelli".
Insomma: addio alle tradizionali "Nel frattempo..." o "Dieci miglia a Sud di El Paso".

Si può fare un fumetto senza didascalie, come si può fare un fumetto senza parole. Ma che una cosa si possa fare non significa automaticamente che vada fatta.
Rispetto e ammirazione per il duo genovese in Italia e per chi ha fatto la stessa operazione ovunque nel mondo. Hanno aperto la strada, altri hanno seguito, altri no. Il fumetto è di certo più ricco dopo queste esperienze.

Ma dovendo scrivere un nuovo fumetto, come DanG.E.R., mi sono chiesto se vale davvero la pena rinunciare alla didascalia.

La domanda è oziosa. Non tutti i film sono a colori, non tutti sono in bianco e nero.
Ci possono essere fumetti senza didascalie, ma ciò non significa che non ci siano fumetti validissimi con la didascalia.

Come ogni elemento di un linguaggio, la didascalia deve essere funzionale alla narrazione che si vuol fare, tutto qui.
Banalmente vero.
Ma a cosa serve la didascalia, quando si dimostra che il fumetto ne può fare a meno?

Le funzioni che ancora oggi può avere una didascalia sono varie.

La prima che mi viene in mente è l'identificazione.
Per carità: non sto parlando della didascalia che ci nomina il personaggio o il luogo. Parlo della didascalia come parte della struttura irrinunciabile, il mattone necessario che ci fa sentire "a casa", che c'è sempre stato.
Si può (si deve) scrivere Ken Parker senza didascalie.
Ma Tex senza didascalie, forse, non sarebbe Tex. La didascalia diventa un piccolo elemento, forse superfluo, ma che si noterebbe proprio per la sua assenza.
Tex (ma anche Zagor, Martin Mystere, Diabolik, Topolino...) ha le didascalie. E basta.
Se voglio scrivere Tex dovrò mettere le didascalie, o spiazzerò il lettore.
Se voglio fare una sit-com in USA, devo mettere le risate registrate (o fare "Scrubs").

Seconda funzione, ancora una volta identificabile con il "Bonelli style": la didascalia informativa.
Luogo e tempo.
Posso fornire le stesse informazioni col dialogo, certo. Ma è come girare oggi un film in bianco e nero, ma con una storia centrata su oggetti di un dato colore. Posso cavarmela con i dialoghi, ma è più semplice se non giro in bianco e nero, ma a colori. O coloro solo quegli oggetti su cui voglio concentrare l'attenzione del fruitore, come è accaduto con la bambina dal cappotto rosso in Schindler's List.
Detto ciò per il cinema, nel fumetto le didascalie sono una soluzione spesso più comoda di un dialogo, no?

La terza funzione, quella che più mi sembra più interessante per un fumetto inedito, è la didascalia che ci dà la voce fuori campo.
E questa può essere gestita in due modi: come accade in "Scrubs", appunto. O come fa da (quasi) sempre Frank Miller.
Ne parleremo la prossima volta, se vorrete seguirmi.

PS: non parlerò delle didascalie che potremmo categorizzare come "superflue" (quelle che ci ribadiscono cosa si vede già nel disegno) e quelle che, invece, sono da tenere a bene mente, perché "dannose" (il "pippone" che spiega quanto è accaduto... perché disegni e dialoghi non lo hanno fatto).
Da evitare entrambe, ovviamente.

sabato 3 settembre 2011

L'origine du monde (meno 83.50 al BigT)


Courbet ce lo aveva mostrato nel 1866, ma era un po' presuntuoso. 
Quello era l'origine del ***nostro*** mondo, individuale.

Quello che vi presento sopra è l'origine di tutti i mondi potenziali a fumetti.
Sua maestà la Closure, la sottile linea (o lo spazio) che separa due vignette.
La biblioteca (a fumetti) di Babele.
Il regno del possibile e della soggettività del lettore.

Ciò che rende il fumetto diverso da qualsiasi altro medium.

Un'oasi di deresponsabilizzazione nell'inferno di dover scegliere cosa mettere nella vignetta successiva.

Il punto del fumetto in cui lettore e autore sono alla pari: sono entrambi liberi con la loro fantasia.



Ps: l'esempio di sua maestà Closure è tratto da Martin Mystère numero 1, tavola 23, testo di Alfredo Castelli, disegni di Giancarlo Alessandrini. 
Ovviamente.

martedì 23 agosto 2011

ZOAT! Time is a four letter word (meno 83.61 al BigT)






"Il fumetto è per bambini. Quindi non si dicono le parolacce, o i bambini si turbano".

Ok, è molto, molto retrò, come frase. Eppure sono due concetti sottintesi a tanta produzione a fumetti e nei cartoons.

Non sono qui per discutere come il fumetto ***possa*** essere per bambini, ma ***non sia obbligatoriamente*** per bambini. 
Lo do per assodato, e spero lo facciano anche i miei otto lettori manzoniani.

Se il fumetto non è per bambini, ciò non significa che crolli anche la seconda frase. Ovvero che i bambini (anche quelli diventati adulti) potrebbero trovare sgradevole leggere le parolacce in un fumetto. Le parolacce sono "brutte parole", che i "beneducati" non dicono.
O limitano a rari momenti, ben definiti e tollerati.
Ira.
Disperazione.
Sarcasmo.
Incontri tra amici in cui prevale lo sfottò, l'allusione sessuale, il pettegolezzo.
Etc.

Ora: nei fumetti ci possono essere parolacce, anche se il fumetto è per adulti? In teoria sì, in pratica ce ne sono abbastanza poche. E concentrate nei dialoghi che servono a indicare ira, disperazione, sarcasmo etc.

Ma nella realtà funziona proprio così?

Ovviamente posso far riferimento alla mia esperienza e a chi mi circonda. Quindi il campione potrebbe essere falsato. Ma sono io a scrivere fumetti, e questi non possono che essere (in parte) lo specchio della mia vita.

Io non dico tante parolacce. Anzi ne dico tantissime.
Contraddizione? Beh, dal mio punto di vista no.
Cosa è una parolaccia? Un apostrofo nero tra le parole "Vaffa" e "ngulooooo"?
O una qualsiasi parola che diventa parolaccia per la forza emotiva che mettiamo in essa?
Lascio ad altri la dimostrazione della seconda opzione.

Io la dò per scontatamente vera.
(Ehi!, mi sto evitando tante discussioni linguistiche, oggi!).

Quale è la conseguenza di ciò? 
La prima è che ogni parola può essere una parolaccia. Dalla femmina del verro ai testicoli, a svariati disturbi psichiatrici.
La seconda è che nessuna parola, per se stessa, è una parolaccia. Perfino il "lazo" della canzone di Armando de Razza.

Quante volte, in situazioni rilassate, usate la parolaccia decontestualizzata, senza alcun intento di insulto? Non con il vostro capo o con la vostra zietta anziana, ma tra amici, tra amanti, tra colleghi con cui c'è una minima frequentazione. Senza voler dire parolacce.

Io lo faccio spessissimo.

"Passami quel cazzillo". "Quella è una figona pazzesca". Etc., etc. etc.
Parolacce senza intento di parolaccia.

"Sì, ok - direte voi - ma che c'entra? Va bene che hai detto che Daniel diceva molte parolacce, ma che c'entra questo con i post precedenti sui dialoghi? Il dialogo di DanG.E.R. si basa solo sulle parolacce?"

Beh, no.
Anzi: benché avessi in mente un Daniel che dice molte parolacce, il nostro eroe le avrebbe dette per lo più nel senso visto sopra. 
Daniel avrebbe usato parolacce ma non per dire parolacce.
Pensate all'inizio di "Quattro matrimoni e un funerale": una sequenza di "cazzocazzocazzo!" non indifferente. Ma dire che i dialoghi del film abbondano in parolacce mi sembra eccessivo.
Immaginate di essere inseguiti a un tirannosauro affamato. In quella situazione a me verrebbe sulle labbra una bella sequenza di "cazzocazzocazzocazzo!". E quindi la ho messa, visto che nel promo di DanG.E.R, Daniel è inseguito dal detto, affamatissimo, sauro.

Poi, grazie alla cortesia di un amico, un autore importante di fumetti (MM, ma non BVZM :-p ) ha letto il promo, e come da mia richiesta, mi ha fatto le pulci.
Azz, è stato un momento insieme deprimente ed esaltante.
Deprimente perché sono emerse le piccole e grandi inesperienze della mia sceneggiatura. Cose che posso notare nei fumetti altrui, ma che è più difficile vedere nel proprio figlio, per quanto scarrafone esso sia.
Esaltante perché non erano obiezioni generali (mi piace\non mi piace) o filosofiche, ma tecniche, dettagliate e specifiche, di quelle che ti fanno imparare.

Il tutto per giungere alle parolacce.
MM mi ha spiegato che le parolacce, nella casa editrice dove lavora prevalentemente, si usano solo se motivate. E che la sequenza non gli sembrava troppo motivante per un uso ampio delle parolacce.
(E' da sottolineare come il gentilissimo autore, mi ha anche detto che mi stava prospettando il punto di vista suo e di come veniva comunemente inteso l'uso della parolaccia nella sua casa editrice, e che io potevo anche essere in disaccordo con lui… se non pubblicavo con quell'editore, ovviamente :-D ).

E qui la riflessione che vorrei proporvi oggi, e che si collega ai post precedenti.
("E finalmente!", dirà qualcuno)
Quello che per me era un tentativo mimetico, cioè di scrivere dialoghi come li avrei detti io nella quotidianità, secondo altri non era mimetico affatto. 
Era una scelta, come sempre nel fumetto, ma una scelta non abbastanza condivisibile.

C'è chi ha detto di fregarmene (vedi il mio disegnatore, che quando scrive usa molte parolacce anche lui).
Invece a me è sembrata un'obiezione su cui pensare. Non perché la parolaccia era in quel contesto eccessiva (sono un gran testardo, scusa M!), ma perché mi ha fatto riflettere ancora una volta sul codice fumetto.

Spiego.
Ci siamo detti che il fumetto è un medium di riproduzione della realtà, ma che si tratta di un medium innaturale, più del cinema.
Però con il cinema condivide un aspetto: i personaggi non parlano come avviene nella quotidianità ai loro equivalenti reali. Un avvocato sullo schermo non parla come un vero avvocato in un'aula di tribunale (o al ristorante, o davanti alla tv).
Da "Peste!" a "Ezechiele 25,17" i linguaggi di cinema e fumetto usano dei codici che sono loro propri. Creano aspettative che sono tipiche del medium.
Un esempio: il bruttino "Lanterna Verde". 
L'ho visto in castellano, quindi qualcosa me la sono persa. Ma il film aveva alcune pecche dal punto di vista della classica costruzione della storia e dell'uso del linguaggio dei film d'azione supereroistici.
C'era qualcosa che "stonava".
In particolare c'è una scena del training di Hal Jordan, appena divenuto LV. E' su OA, un addestratore di LV gli insegna come si usa l'anello, modello sergente Hartmann o, meglio Louis Grosset Jr.
Il detto istruttore crea un piccolo sole che si sta per pappare Jordan. Poi lo salva, ma lo sbatte a terra e gli dice "La gravità è una puttana" (tradotto dal mio precario castellano).
In una scena clou del film, Hal usa lo stesso trucco per vincere un nemico (cioè usa la gravità del sole)… ma non usa la stessa frase.
Sarò un paranoico strutturalista, ma se guardate l'80% dei film d'azione di Hollywood, la frase "mitica" usata nella prima parte del film per indicare una sconfitta (o un insegnamento) ritorna nel finale. Prima era la lezione da imparare, poi è la lezione imparata. 
Si ascolta da "bambini", si pronuncia quando si diventa "adulti".
Fa parte delle regole del dialogo cinematografico: le battute sono scritte in una lingua verosimile ma non vera, esattamente come (già detto altrove, no?) esiste il "doppiaggese", un modo di rendere il linguaggio usato nei film anglosassoni in italiano, che non è e non vuole essere il linguaggio che usiamo quotidianamente. 
Insomma: nei film i personaggi parlano con un linguaggio che si usa solo nei film e che sembra linguaggio quotidiano e vero… ***solo nei film***.

Il fumetto, allo stesso modo, ha i suoi codici di dialogo. 
La prima banale caratteristica è che spesso i personaggi si chiamano continuamente per nome anche quando sono face-to-face (cosa che non accade nel cinema o nella realtà). 
Poi che usano frasi ultrasintetiche (tranne in Martin Mystère) ed essenziali. 
E anche che hanno dei tormentoni che valgono nel fumetto, al cinema, tra i comici della tv, ma che quasi nessuno usa con tanta frequenza ("Sono il migliore in quello che faccio", "Giuda Ballerino!", "Hulk spacca!"...).

E, infine, le parolacce si usano solo quando servono. 

Non basta un "cazzo" in una vignetta o un "vaffanculo" a tavola sei per dare l'idea di verosimiglianza del linguaggio.
Perché il linguaggio del fumetto non è mimetico. Alla fine della fiera: nel mondo reale non sarebbe realistico.
Può essere verosimile, ma solo nei limiti della verosimiglianza del codice del fumetto.
E quindi non c'è tempo nelle tavole per fare un dialogo così rilassato, un dialogo "inutile" nel senso che non dà informazioni, come sono tanti nella nostra quotidianità, in cui mettere parolacce-nonparolacce.
(Nella realtà i dialoghi apparentemente "inutili" dal punto di vista delle nuove informazioni date, sono utili: servono a stabilire\confermare una relazione).

Quindi perché "Zoat!" nel titolo?
Perché una delle opzioni sulle parolacce che doveva usare Daniel era quello della parolaccia inventata.
Non è una mia invenzione, per carità. Judge Dreed, come figlio prediletto di 2000 AD, aveva già le parolacce inventate. 
Ma mi piaceva riprendere l'idea della parolaccia del futuro.
Un po' per il rischio censura, un po' per giocare con la censura, un po' perché essendo così "sentite", le parolacce invecchiano rapidamente e ne nasce ogni giorno una nuova. E le vicende di Dan non sono ambientate ai nostri tempi (salvo rara eccezione).

La mia scelta di "Zoat!" voleva essere ironica. Era un po' il giochino da bambini di far pronunciare più volte e velocemente la frase "Nato scoglio" al compagnetto meno scafato.
Questa scelta ora è divenuta secondaria: il concetto da sviscerare, la decisione da prendere, non è sul tipo di parolaccia da usare (alla fine sono intercambiabili, una volta che si sceglie di usarle).
La vera scelta è se usare, e come e quando usare le parolacce.

Ma in un momento in cui il progetto di DanG.E.R. sembra destinato a un rinvio (sine die?) per i soliti rischi vari ed eventuali del fare fumetto, questa può essere una riflessione più generale, che prescinde dalla realtà più contingente.

giovedì 4 agosto 2011

Elefanti a pezzi (Meno 83.80 al BigT)


Dove eravamo rimasti, tempo fa?
Ah!, sì: alle parole che fanno i dialoghi. 
Anzi: alle parolacce.

Una delle riflessioni della linguistica fa notare come sia più difficile esaminare la ***propria*** lingua madre rispetto a una lingua straniera. 
Il perché è semplice: la naturalità della propria lingua (la "banalità" della stessa?) ce la fa usare senza problemi, ma ci rende complesso vederla attraverso una estraniazione da essa.
E' come quando guidiamo. 
D'istinto sappiamo quando frenare: se dovessimo rifletterci su ogni volta che abbiamo la necessità di frenare, Zeus sa quanti incidenti in più nascerebbero.
Nella nostra lingua c'è un elemento "romantico" e "rock": la viviamo, non ci pensiamo su.

Così per me è facile raccontare: ho letto tante cose (troppo poche o troppe, a seconda di come la vediamo), e ovviamente dal puro assorbimento passivo ne è derivato uno schema. Lo schema tripartito che inconsciamente riproduco quando voglio narrare qualcosa.

Inconsciamente.

Come quando parlo la mia lingua madre.

(Che poi la narrazione sia piacevole è un'altro paio di maniche, ma il paragone credo regga benissimo: tutti sanno parlare, ma parlare bene è un'arte).

La sceneggiatura è un'opera innaturale per me, almeno in questa fase della mia vita.
Troppa poca pratica, troppa difficoltà a uscire da me stesso, e da ciò che penso sia banale da far capire, per entrare nella mente di chi mi ascolta e dovrà trasformare in disegni concreti ciò che sono solo parole.

Innanzitutto: cosa ci sarà nella vignetta. Perché c'è e cosa è davvero importante. Perché preferirei un'inquadratura invece che un'altra.
Eccessivo, direte. 
E direte la sacrosanta verità.

E' eccessivo, però, solo nella misura in cui non si condivide il codice di comunicazione.
"Prenditi un manuale dei sceneggiatura e usa il codice che ti dicono di usare, che deriva dall'esperienza di altri che hanno avuto lo stesso problema prima di te".

Bene, è ciò che ho fatto.
Ma una cosa è studiare la grammatica, mettiamo, dell'inglese. Un'altra cosa è parlare l'inglese.
La mia ragazza (oddio! Mia moglie!) è praticamente bilingue, ha appreso l'inglese accanto all'italiano. E ha qualche rallentamento quando deve pensare in "grammatichese" perché l'inglese lo parla spontaneamente, non deve riflettere su come costruire la frase.

Ho comunque letto qualche manuale di sceneggiatura, scritto da sceneggiatori. Questi danno per lo più informazioni:
a) di scrittura creativa (come "inventare la storia", come scandirla)
b) di terminologia tecnica della vignetta (inquadratura, baloon, onomatopee, etc.)
c) come comporre formalmente un soggetto o una sceneggiatura.

Allora.
Posto che del punto a) presuntuosamente non ne ho bisogno (che poi le mie storie siano buone o meno, si vedrà quando saranno realizzate. Però è vero che raramente nella mia vita mi è capitato di dire: "Ho voglia di raccontare qualcosa ma non so cosa raccontare").
Posto che il punto b) è, appunto, grammatica più o meno normativa.
Posto che il punto c) è quello che insegno ai miei alunni delle medie: la forma del tema, scevra dal suo contenuto.

Posto tutto questo, ne risulta che, a mio giudizio, in quei manuali che ho letto manca ciò che fa di un buon fumetto un buon fumetto.
Non ho ancora trovato chi mi dia informazioni approfondite, ad esempio, sul ritmo della narrazione.
Per lo meno oltre generici suggerimenti quali "un momento importante ha bisogno di\viene sottolineato da una vignetta importante\grande\splash page".
O "possiamo dare un certo ritmo, ma è il lettore a decidere quanto velocemente leggerà, quanto si soffermerà".
In pratica: per rallentare faccio vignette con disegni elaborati e poco testo? Ci sarà chi passerà oltre addirittura più rapidamente, per vedere "come va avanti la storia".
Faccio il contrario? Qualcuno potrebbe "andare avanti veloce" saltando piè pari due tavole martinmysteriane e arrivare subito all'inseguimento.
Così perde informazioni, forse importanti, potreste dire. E forse, leggendo il pippone distrattamente, le perderebbe lo stesso.
Come lo risolvo?
La risposta che mi ha dato un maestro è stata che si possono usare dei trucchetti, ma il lettore poi fa un po' quello che gli pare. E che i trucchetti nascono dall'esperienza. E che quindi bisogna, come una volta, "andare a bottega" da chi ha più esperienza di noi, farsi correggere passo per passo e situazione particolare per situazione particolare, senza poter trovare davvero una regola infallibile e sempre applicabile.
Per il cinema, per altre arti visive non funziona così, certo. Però questo rende il fumetto forse il medium meno dirigista e meno impositivo nei confronti del proprio fruitore.


Ma torniamo all'argomento "naturalità\innaturalità" del fumetto.

Nuovo salto logico, ma non troppo.
Quando cercai di corrompere il buon Maxia fornendolo di fumetti perché dilazionasse i suoi studi mi disse che aveva difficoltà a leggere i fumetti. Non per contenuti o forma artistica. No: letteralmente perché aveva difficoltà ad associare testo e disegno.
Nessun disturbo: semplice disabitudine. Letti pochi o nessun comic da piccolo, difficoltà da grande. 
E, in effetti, il fumetto è difficile. Non è "naturale" come un film: la combinazione audio\video è quella che abbiamo normalmente nella nostra vita di tutti i giorni, salvo malattie o malformazioni. Non è limitato a una sola parte del cervello, come un libro di solo testo, o una raccolta di immagini.
Si, va bene, c'è chi obietterà che ci sono le didascalie delle immagini, o illustrazioni a un testo. 
Ok, ma secondo me nessuna di queste forme è paragonabile al fumetto, dove le interazioni tra testo e disegni prevedono abitualmente una parità di importanza.
Il fumetto è qualcosa di diverso, di complesso. 
Di faticoso. 
Di poco istintivo.
Tant'è che lo dice anche Alan Moore nell'ultimo numero di Promethea, uno che di medium fumetto se ne intende.

Perché questa digressione, allora?
Semplicemente per il fatto che, abbastanza assurdamente per uno che vorrebbe fare fumetti, io leggo prima didascalia e ballon e poi guardo le immagini.
E ho scoperto che la maggior parte delle altre persone fa, gerarchicamente, l'opposto: prima impostazione della tavola (che dà il famoso "impatto"), poi impostazione della vignetta, infine testo o eventualmente dettagli del disegno.

Sono fatto male lo so. 
Penso per parole e non per immagini. 
Brutto, visto che scrivo un fumetto. 

Come i saggi indiani bendati, che devono identificare un animale toccando solo un parte del suo corpo. E così uno dice che si tratta di un serpente, uno che si tratta di un tronco, l'altro di una balena, un quarto di una statua e così via… e non sanno che stanno toccando proboscide, gambe, ventre e zanne di un elefante.
Così partendo dal testo, il fumetto mi appare frammentato, da costruire senza aver chiaro fin dall'inizio quale sarà la costruzione finale.
E ciò, penso, rende chiaro perché mi sono fatto i "layoutini" per dare un minimo di organicità alla prima storia di Daniel.

Tutto ciò per dire cosa?

Ma solamente che ogni lettore è diverso. Per sottolineare ancora che il ritmo di fruizione non lo può imporre lo sceneggiatore o il disegnatore (non siamo registi di cinema), ma lo dà il lettore. Che chi fa il fumetto può solo suggerire. Che il suo pubblico è troppo diverso, variegato… libero?… per poterlo controllare.
Ralenty e accelerazioni vengono date dal fruitore, non dal regista\addetto al montaggio.
Ecco perché nei manuali il ritmo è solo accennato. Perché si limita spesso a indicazioni sul modello "se in una scena d'azione metti troppo dialogo, la 'ammazzi' ". 
Perché Martin Mystère è unico, con le sue pagine di spiegazione.

Perché il fumetto è la più innaturale delle arti, se pure si esige una "naturalità" nell'arte.

<<Un momento! - diranno i miei attenti 42 lettori - Prima hai detto che la difficoltà stava nella "naturalità" del codice, ma ora dici che il fumetto è innaturale! 
Che la sceneggiatura è innaturale! 
Sei in contraddizione? Il fumetto, proprio perché non è una mimesi così perfetta della realtà, non dovrebbe essere più semplice da decrittare, e quindi da fare? 
E che c'entra tutto questo con i dialoghi, con cui ci hai lasciti a marzo? 
E, soprattutto, cosa c'entrano le parolacce?>>

Allora devo essere più chiaro (azz, tendo sempre ad avvoltolarmi sui miei pensieri e a capire poco perfino me stesso).

L'innaturalità del medium fumetto non c'entra nulla con la sua fruizione, per chi è abituato a leggere fumetti. 
Come il guidare l'auto (ricordate sopra?): non è qualcosa di certamente insito nel DNA umano, ma si impara rapidamente e diventa istinto.
Leggere fumetti per me, a differenza del Maxia, è un'attività naturale. Pur con la deformazione del "testo prima del disegno". So sempre quando un fumetto mi piace e quando non mi piace. Arrivo anche a dire quando "funziona" e, più raramente, "perché funziona".
Ma, detto questo, il passare da "critico" ad autore, richiede un bel salto di qualità.
Capire cosa ha fatto qualcun altro non significa che so automaticamente rifarlo. Non posso usare i pezzi di una tavola di Gaiman e combinarli senza problami con un dialogo di Castelli.
Paradossalmente questa operazione di "puzzle" del nostro elefante\fumetto funziona meglio per i disegnatori: i volti di questa tavola, con le mani di quest'altra, con le inquadrature di questa terza... ed ecco che da un pezzo di elefante e da un pezzo di coccodrillo nasce il coccofante.

Insomma: credo che il diverso tipo di "innaturalità" della sceneggiatura rappresenti un serio ostacolo. Perché mi rende difficile esprimermi in modo compiuto, soddisfacente
E' un po' come se nel parlare non potessi costruire delle frasi, ma solo usare parole-frase. Pezzi che non si combinano con naturalezza insieme.
E ancora peggio va con i dialoghi: come fare un dialogo efficace e "realistico" con un medium così poco realistico come il fumetto?


Forse il problema sta tutto qui: la sceneggiatura è il riflettere prima di parlare, organizzare il pensiero e valutarlo prima di renderlo manifesto.
Cosa che poco si fa, di questi tempi. 
Da qui, per me, la difficoltà a sceneggiare.

E le parolacce?
Ora ci arriveremo.
Anzi: nel prossimo post.

PS: a scanso di equivoci. Il Maxia si era arreso troppo presto, ma anche la voglia di laurearsi e di evitare nuove distrazioni lo aveva influenzato…

martedì 26 luglio 2011

Assenze


OK, sono ingiustificatamente mancato per un sacco di mesi (spero anche di essere mancato a qualcuno).
Ma c'era una motivazione seria, visto che volevo sposarmi prima del BigT!
E sì che sono successe un sacco di cose nel frattempo (oltre le nozze).
Vabbbè, cercheremo di recuperare il tempo perduto!


mercoledì 30 marzo 2011

30/03/2011 (Meno 83.238 al BigT) - Cantami di questo tempo

Dialoghi, che dolore!
Una trama mediocre può essere salvata da buoni dialoghi, una trama geniale può essere affossata da dialoghi mediocri.
Insomma: in un fumetto il dialogo (buono o brutto che sia) vale più dell'idea.
C'è poco da fare, funziona così, in ogni tipo di narrazione.
Qualcuno o molti non saranno d'accordo, io rimango di questa opinione.

Dunque il problema è come farli bene, questi dialoghi.
Scegliere il realismo? Credo sia sbagliato, in linea di massima. 
Perché il fumetto (così come il cinema, in fondo) **non può** essere totalmente realistico.

Innanzitutto per la forma oggettiva del medium: nessuna realtà è fatta di immagini fisse, di parole che vengono dette ma possono essere lette\interpretate con la velocità desiderata dal lettore\ascoltatore. Chi parla governa il tempo della realtà, nel fumetto governa chi legge.

Quindi, oltre al fatto che manca l'enfasi propria del realismo, nel fumetto non c'è lo spazio sufficiente per un dialogo realistico. Persino per un dialogo tra persone notoriamente laconiche.
Basta fare un esperimento: registratevi in una normalissima, banalissima conversazione. Poi "sbobinate". Poi rileggete lo scritto.
Non credo che nessuno abbia letto libri scritti in questo modo, neppure in un delirio di un James Joyce in acido.

Ok, allora opzione due: usiamo un linguaggio "da fumetti".
Oltre al fatto che "linguaggio da fumetti" è un'espressione che sembra essere pronunciata sempre e comunque accompagnata dal ghigno di disprezzo di uno snob intellettualoide… cosa intendiamo con linguaggio "da fumetti"?
L'idea che suggerisce è qualcosa di artificioso, innaturale, limitato, appunto, al fumetto e escluso per questa stessa ragione dal realismo o, addirittura, dalla verosimiglianza.
E su certi dialoghi in certi fumetti sono anche d'accordo.

Però, se è riconosciuto e accettato come "da fumetti", vuol dire che si potrebbe\dovrebbe usare per fare i fumetti, no?

Ricordo quando partecipai a un concorso per un porno a fumetti, bandita dalla rivista leader del settore patinato. Pardon, la rivista era “erotica” (ed edita curiosamente da uno spettabile editore che ha come cognome il nome di un animale notoriamente assai prolifico).
Il problema non era la storia, ma i dialoghi. 
Innaturali, non “suonavano” affatto.
Quindi sono andato a leggermi con occhio critico alcuni “capolavori” del genere, leggendoli per trarre spunti. E lì, vista la criticità e lo “straniamento” necessario per leggere siffatti immortali versi, ho capito che il linguaggio del porno non è assolutamente verosimile. Per lo meno non rientra nella mia esperienza diretta!

“Usa l’esperienza diretta, allora!” mi dissi. Sarà stato il lieve rossore che arrossò le mie guance, sarà il senso di colpa atavicamente italico che nel campo dà effetti opposti, ma anche il realismo non funzionava.

Così ho ripreso il “dettato” dei maestri e ho fatto dialoghi artificiosi seguendo il loro modello.
Dialoghi che ancora oggi mi sembrano assolutamente inverosimili, ma che chi ha letto il fumetto “da estraneo” ha trovato tutto sommato nello standard del genere.

Quindi il problema è trovare lo standard del genere, qualcosa che non è realistico, né inverosimile. 
Qualcosa che sia efficace per il fumetto che si vuole raccontare.

Diamolo per buono. Ma quale è il modello di un "linguaggio da fumetti", di un fumetto di avventura come aspira ad essere DanG.E.R.?
Quello magniloquente di Stan Lee? Quello epico e tagliente di un Gianluigi Bonelli prima maniera? Il poetico e spesso criptico di Gaiman? Le mille variazioni di Alan Moore? Il volgarotto geniale di certi pezzi di Ennis?
Il verboso ammaliante e stordente (detto in senso positivo, naturalmente) di Alfredo Castelli in versione "Martin Mystère a ruota libera"? (Quanto vorrei saper scrivere come Castelli, invidia invidia invidia!)

Purtroppo alcuni di questi stili sono invecchiati (ovviamente), altri sono limitati al loro campo specifico, altri esempi sono meno illustri di quelli sopra citati, e meno efficaci.
Nessuno corrisponde esattamente a ciò che vorrei fare con DanG.E.R.: non riesco a "sentire" Daniel mentre parla come un BVZM o come Rorschach o come Jesse Custer.

In realtà la verità sta come sempre nella banalità: ogni autore deve trovare il suo stile di dialogo. 
E questo stile deve adattarsi ai personaggi che di volta in volta si creano.

Banale perché vero e sacrosanto.

Un dialogo non può essere completamente realistico, mimetico, nè innaturale, troppo immaginifico.
Non può essere realistico oltre un certo livello, non può essere un "linguaggio altro" troppo distante dalla realtà.
Insomma: l'optimun si trova a metà strada, come sempre e naturalmente.

Ritorniamo sempre lì: chi scrive deve tener conto del medium che ha a disposizione, e della storia che vuole narrare.

Se vogliamo la lingua del fumetto "realistico" (con tutte le virgolette del caso nell'uso di questo termine) è simile al "doppiaggese" su cui mi ha aperto gli occhi la mia girl. Avete mai ascoltato con attenzione i film tradotti dall'inglese?
Ma davvero davvero davvero?
Sono zeppi di costruzioni che ormai ci sembrano normalissime perché le abbiamo ascoltate in decine di film e telefilm... ma che, a pensarci bene, abbiamo ascoltate solo lì.

Ad esempio il generico "amico" (che dubito sia mai stato usato come appellativo in Italia prima dell'invasione del cinema Hollywoodiano) che traduce indifferentemente gli inglesi mate, buddy, horny, man.

O il "fottuto" che tanto impera nei nostri film di duri realistici... Che in realtà è un calco del fucking ammmmerigano, usato anche per esigenze di lunghezza.

Dopo aver riflettuto sul fatto che
Proprio il doppiaggese, criticatissimo fin dagli esordi, diventa un po’ alla volta la vera lingua italiana a cui tutti inconsciamente aspirano.
torniamo proprio al "fucking" e alla parolaccia.
Come inserire le parolacce in un fumetto senza che sembrino forzate? E ha davvero senso inserire quelle che un tempo erano espressioni volgari, ma che nella quotidianità hanno quasi perso il valore trasgressivo, aggressivo ed offensivo?
Zoat!, ne parleremo nel prossimo post, perché mi sembrava "giusto" che Daniel dicesse un sacco di parolacce.

giovedì 17 marzo 2011

17/03/2011 (Meno 83.251 al BigT) - Come è complicato finire

Ci siamo lasciati quasi due mesi fa con un "angoscioso" punto in sospeso. I problemi del finale.
Poi sono arrivate le prime immagini.
Poi ho dato a Max la revisione della sceneggiatura del primo capitolo.
Poi sono di nuovo qua, a togliervi la curiosità (se ne è rimasta).

Ho raccontato delle difficoltà dell'inizio. Quello che deve catturare, farti leggere fino in fondo.
Ma questo è nulla in confronto ai problemi dati dal finale.
Per me, almeno.
Perché in una struttura a tankobon come quella che ho immaginato per DanG.E.R., il vero gancio è tutto il primo episodio.
Non bastano le prime tavole: l'inizio vero e proprio deve portare il lettore fino a tavola 22 del primo capitolo. Ma è il finale del capitolo che convincerà a leggere gli altri.
O vi farà gettare via l'albo.
O vi farà dire "Grandi disegni, pessima storia".

Insomma: nella mia idea di come sarà DanG.E.R., il finale del primo capitolo deve essere uno snodo cruciale.
Non dimentichiamo che se non immaginiamo un buon finale (o almeno uno che speriamo lo sia!) non ci sarà mai una buona storia. E qui il finale del capitolo deve essere il traino per i capitoli successivi. Perché nel volumetto di DanG.E.R., immaginato come un tankobon, le storie devono essere molto trinitarie: indipendenti ma interdipendenti, una storia in cinque parti, ma anche cinque storie diverse...
"Ma perché complicarsi la vita così?" forse mi chiederete.
E' che DanG.E.R. vive in un mondo frammentato eppure unito da un grande problema, e quindi questo mi pareva il modo migliore di rendere anche graficamente la storia.
Poi il tempo e la carta vi\mi diranno se sono in grado di reggere questa ipotesi di lavoro.

In fondo, qualcuno ben più esperto di me e ben più autorevole (continuo i miei sperticati complimenti a Fabio Bonifacci e al suo corso, ovvio!), dice che

se trovate uno sceneggiatore che dice “ho un grande finale”, staccate un assegno e fategli firmare un’opzione. Quello ha un buon film.
Ma dice anche
se avete un buon personaggio, una buona trama e uno sviluppo appassionante, il finale si scriverà da solo.
Beh, ciò che accade nel finale ce l'avevo in mente fin dall'inizio. Non so se questo sia positivo (cioè ho davvero un buon personaggio, una buona trama e uno sviluppo appassionante) o non ho capito niente e sono in preda a un delirio acritico di autoesaltazione.
Mi andrebbe benissimo se la verità fosse nel mezzo: né capolavoro né ciofeca, ma funzionale e dignitoso. Perché il finale che ho immaginato mi piace. E mi piace anche pensare che, se lo leggessi scritto da un altro, lo apprezzerei.

Il finale, dunque.
Riscritto tre volte, finora. Non tanto per quello che succede: come ho detto è stato deciso fin dall'inizio, è una chiusura del primo capitolo ed è il sentiero che porterà il nostro eroe fino al termine del tankobon.
Ma è stato riscritto per rendere al meglio l'atmosfera, l'idea del tipo di narrazione che sta dietro.
E questa idea si è definita meglio non appena leggevo le bozze di finale.
Che ci volete fare? Nonostante la mia veneranda età, sono ancora un novellino nella scrittura, e sto cercando la mia strada mentre la percorro.
Ma forse è sempre così, quando si crea.

Il finale, dunque.
Inizialmente era molto classico, un finale dove "succedono cose". Fine della prima missione, minaccia del cattivone che lascia aperta la sfida alle evoluzioni dei capitoli successivi. L'apparizione di qualcosa legata al passato di Dan. Stuporone di Dan, nuove speranze, musiche e titoli di coda, appuntamento al capitolo due.
I dialoghi avrebbero dovuto essere un semplice corredo a ciò che avveniva.
Poi una riflessione: per tutto il primo capitolo Daniel corre dall'inzio fino a (quasi) la fine.
Perché farlo correre ancora? Perché concentrarci su ciò che aggiungevo in queste tavole?

Così ecco l'idea della pausa.
Non la pausa che precede il salto, la pausa per prendere il fiato.
No, la pausa quando il salto è compiuto, l'esibizione è finita, le luci si spengono, e l'attore rimane da solo.
A dirsi: questo lo potevo fare meglio.
O, semplicemente: mi fanno male i piedi, vorrei un bel bagno caldo.
Che Dan sappia saltare, lo avete visto nel promo, e lo vederete nelle prime 18 tavole.
Ma mi piacerebbe che Daniel Knight non fosse solo l'ennesima variazione del tipo "scavezzacollo ma duro". Che dietro il sorriso sbruffone ci fosse una storia, dei ricordi, una personalità. E in una narrazione che fa del tempo il suo leit-motiv, la storia personale è necessaria.
Meno stereotipa possibile.

Quindi le ultime tavole si sono trasformate: c'è tutto quello detto sopra (mi serve per i capitoli successivi!), ma ciò che avviene fuori non può essere l'unico fulcro.
Queste tavole devono essere la pausa per approfondire Daniel.
Ma come renderlo in maniera adeguata?

Dopo una riflessione ho avuto la folgorazione di... oibò, sì, di "Scrubs".
Avete presente gli episodi?
Il buon vecchio JD, alla "fine" di tutto ciò che è avvenuto, riflette con la sua voce fuori campo, e le sottotrame di quell'episodio (in realtà le diverse articolazioni della stessa tematica) trovano la loro unità e spiegazione. La morale della storia.
Mi piaceva poco l'idea della morale, ma la voce fuori campo sì. Tant'è che l'ho inserita anche nelle tavole precedenti.
Ecco quindi il tentativo e subito ecco la prima difficoltà: i tempi verbali della tv (e in generale del video) sono più "stretti" di quelli della vignetta.
Mi spiego: in dieci secondi ci stanno trenta parole (specie in inglese!) ma trenta parole di commento soffocano una vignetta...
Siamo in un fumetto, quindi dobbiamo far vedere, e dire il meno possibile. Così dice la regola.

Il buon Ilsu potrebbe avere da ridire sul fatto che sia arrivato a questa conclusione solo ora.
Perché se le didascalie soffocano, il disegnatore si deve dannare l'anima per trovare spazio nelle vignette anche al disegno. E così è costretto a rallentare e a non portare a termine delle storie affidategli da un qualche sceneggiatore anni e anni prima...
(Come avrete capito, Sergio, noto Ilsu, userà di certo questa motivazione se gli richiederò notizie de "Il prezzo della verità"!)
Se ci fosse questa obiezione replicherei al buon Ilsu che in quel fumetto la dissociazione testo\vignette era resa necessaria dal tipo di storia. E anche dal fatto che la storia andava decisamente meglio divisa in 6 tavole e non in 4, come qualcuno mi ha costretto a fare per fantomatici problemi di tempo. :-P
E che quindi l'abbondanza di testo fu dovuta proprio a questa riduzione delle tavole.
Certo, non all'inesperienza dello sceneggiatore, non ancora giunto alla considerazione che in un fumetto spessissimo è "meglio togliere parole che aggiungerne" :-p.

Il punto è proprio questo.
Il fumetto è fatto di immagini e parole. La regola del "non dire ciò che puoi far vedere" trova il limite proprio nel fatto che non tutto si può far vedere.
Certo, si possono usare simboli, trovare il montaliano "corrispettivo oggettivo", e così si può evitare che i pensieri restano confinati al campo del testo.
Ma il ridotto spazio a disposizione rende spesso impossibile far vedere tutto attraverso il simbolo.

Da questa riflessione è nata l'ultima versione, l'idea del compromesso alla Frank Miller: le bocche\balloon dei personaggi dicono una cosa, e le didascalie\pensieri dicono un'altra.
Didascalie che fanno della sintesi il loro punto forte.
Sintesi che però, lo vedete da questi post, non è ancora il mio forte...

Panico: vuoi vedere che se Max non trova in breve il tempo di disegnare, mi sembrerà necessaria una quarta versione?

P.S.: abbiamo parlato di tankobon e lo stile di Max è Global Manga... Il pensiero, ovviamente, non può che andare alla catastrofe in Giappone. Anche lì c'è stato un doppio BigT (terremoto e tsunami), e sembra che il peggio possa ancora arrivare. E' indubbio che senza l'orrore nucleare del 1945 anche le riflessioni sui limiti e sui rischi della scienza, che stanno alla base dell'idea di DanG.E.R., non sarebbero nate. 
Ma qui si parla di metafore e invenzioni, lì è tragedia e realtà.

giovedì 3 marzo 2011

03/03/2011 (meno 83.265 ) al BigT - Tempo di colorare...


Ed ecco un tocco di colore al promo di DanG.E.R. realizzato un po' di tempo fa.
I testi sono i miei, matite e chine di MaxD, colori di Flavio Naspetti.
Anche se, per quello che si prospetta, il promo sarà un elseworld, godetevi un post-TiranoAttack interpretato da Daniel Knight!

mercoledì 16 febbraio 2011

16/02/2011 (meno 83.280 al BigT) - Iniziare dall'inizio


Premessa.
Come promesso (cacofonia involontaria) qualche anticipazione della trama.
Già sapevate che ci sarebbero stati cavalli, oggi vi dirò chi sta sopra quei cavalli!


Dove ero arrivato, prima della tempestosa novità?
Ma sì, ai miei orridi "layoutini" che dovevano guidarmi nell'organizzare il vasto materiale in una scaletta\scalettone in vista della sceneggiatura definitiva.
Ovvero alla prima versione della sceneggiatura provvisoriamente definitiva... ma questa è un'altra storia.

Cosa dire di una storia che diventa soggetto che diventa sceneggiatura?
Innanzitutto che è fatta di un inizio, di un centro e di una fine.

E qui tutti a sbraitare che sto dicendo banalità.
Ma dobbiamo rifletterci su: le banalità sono tali, solo perché sono verità evidenti a tutti.

Verità.

Evidenti a tutti.

Elementi che spesso, proprio perché sono banali ed evidenti a tutti, tendiamo a trascurare.
E così talvolta non riusciamo a renderli come sarebbe lecito aspettarsi dall'evidenza di cui sopra.

Così il "partire da un inizio, fare tutti i passaggi e concludere alla fine" non si è rivelato così banale quando mi sono seduto al mio Pc per scrivere, dopo aver finito il soggetto.
Quello che in fase di impostazione sembrava funzionare, in fase di realizzazione dei layoutini funzionava meno.

Ad esempio l'inizio.
Ok, me lo sono sempre immaginato in un certo modo. Con un arrivo ritardato dell'eroe non dico alla Quarto Potere, ma certamente non alla prima tavola.
Ma il fumetto è fumetto, non è un medium che si può dilatare ed arricchire come ad esempio il cinema o i miei amati romanzi.

(Romanzi, ah, delizia dell'umanità creatrice...
Non ci sta una dscrizione in due pagine? Ne aggiungiamo una terza! A meno che non venga un severo editor che ti stronca, e in nome del timore della noia usa le forbici e riduce e rende il tuo inizio dannatamente migliore di quanto tu stesso avevi fatto!)

In un fumetto non abbiamo la libertà delle tavole infinte.
Specie in una realtà povera di mezzi quale è quella del fumetto nell'era della crisi. Devi rientrare nel modulo dei multipli di 8 per la foliazione, non puoi superare un numero totale di pagine per via delle spese etc etc etc.
Così l'inizio deve essere breve.
Se hai a disposizione (come avevo a disposizione) 22 tavole, non potevo dilungarmi troppo nel giochino del ritardare l'arrivo dell'eroe.
Perché DanG.E.R. nelle intenzioni deve essere veloce, dinamico. Se allungo troppo il brodo per avere l'effetto dell'attesa del protagonista, rischio di non avere abbastanza tavole per far vedere ***cosa sa fare*** il protagonista.
Certo, potevo cavarmela con persone che parlano di cosa sa fare il protagonista. Ma dove andava a finire la sacra regola "fai vedere una cosa piuttosto che dirla"?

Così i layoutini mi sono venuti in aiuto, e mi hanno messo davanti all'orribile realtà della scelta: dovevo dire addio alla mia trionfale "partenza lenta"!
Avete presente gli infiniti primi minuti di "C'era una volta il West" in attesa di Armonica? Sì, va bene, Claudio, in realtà alla fine ci rivelano delle cose su quello che sarà il tema nascosto del film... ma sono infiniti!
L'attesa dai lunghi tempi doveva ridursi a una tavola.

Una tavola in cui un pastore errante dell'Asia centrale (Grazie, Conte Leopardi) si accorge con uno stupore che diventa paura, che qualcuno sta caricando contro di lui.
I Tartari sbucati dal Deserto di Buzzati, ovviamente.
Ma visto che si parte con una pagina destra, basta girare (ah, meraviglie del fumetto cartaceo che un e-reader non riuscirà mai a rendere!) e Steven Spielberg irrompe nel nostro albo, e con lui Daniel in fuga.
Insomma: altro che dilatazione! Le esigenze di spazio ("spazio\tempo! verrebbe da dire!) mi costringono a una misera tavoletta. Perché la prima tavola in cui appare Daniel ***doveva*** essere una splash page, vista l'immagine che volevo dare.
E se la prima tavola è di approccio, e la scena-clou dell'inizio è una splah page... beh, signori: l'intro finisce qui, perché bisogna accelerare subito dopo!
Un po' come fa Daniel a tavola tre, insomma.

Insomma. vi ho detto che ci saranno i Tartari a cavallo.
E che l'eroe sta fuggendo.
Come e perché lo vedrete nell'albo, se il mio impegnato disegnatore sarà meno impegnato!

Nel prossimo post, invece, se avrete voglia di leggere una storia che si dilata nei tempi di realizzazione prefino più di quanto avrei voluto preparare l'apparizione dell'eroe, vi racconterò come mettere su carta mi ha posto seri problemi per il finale previsto.

A presto, se il BigT non arriverà prima

domenica 6 febbraio 2011

06/02/2011 (meno 83.290 al BigT) - Bivi epocali

Se andate a curiosare in questa pagina del Blog del buon MaxD

http://www.karmaspazio.it/public/sottopelle/?p=1048&cpage=1#comment-1682

scoprirete uno degli imprevisti più diffusi quando si cerca di realizzare una storia in modo indipendente.
Ovvero che spesso entra il gioco un'opportunità diversa, migliore sotto tanti aspetti o comunque necessaria.
Un bivio che ha una direzione migliore dell'altra.

In questo caso, il fatto che il buon Max ha la possibilità (incrociamo le dita per lui) di fare il grande salto.
Davvero.

Uau.

In altri anni (e anche in questo, perché negarlo :-p) anche io avrei voluto avere la sua occasione. Non con le matite, certo , vista la mia innata capacità di fare orrori grafici! Ma magari con quell'idea che...
Ma l'occasione non c'è stata.

Max, invece, è stato bravo a non farsela sfuggire. Ed è un buon segno per tutto il "movimento" il fatto che la più grande casa editrice italiana accetti anche solo di valutare autori lontani dal suo modo di interpretare il fumetto.
Non accadeva da tempo, e in un momento di crisi del fumetto epocale e generalizzata come questo... zoat! c'è da ben sperare!

Cosa implica questo per il nostro progetto DanG.E.R.?
Beh, se tutto va come deve andare per Max, sicuramente un rallentamento.
Essendo DanG.E.R. un progetto per ora non finanziato in anticipo, finisce ovviamente dopo ciò che dà la pagnotta oggi e le possibilità di una pagnotta più abbondante e sicura domani. Ovvero nel vasto mondo del "ritaglio di tempo".
Non che Daniel e i suoi compari non fossero già in questa collocazione fin dall'inizio: come detto, in Italia, l'edizione non implica necessariamente avere a disposizione un congruo acconto che garantisca di potersi dedicare anima e corpo e matita e word processor al progetto. Ovvero senza avere l'ossessione dell'affitto da pagare e della pagnotta di cui sopra da prendere.
Solo i grandi editori possono fare quello... e per buona sorte (e bravura) di Max, lui ha saputo crearsi con il lavoro l'opportunità.

Cosa potrebbe cambiare, dunque, per la realizzazione di DanG.E.R.?
Tutto e niente.
Se tutto va bene, innanzitutto che Max avrà un po' più di serenità e un po' meno tempo libero, un po' meno di quei famosi ritagli di tempo.
La sceneggiatura del primo capitolo potrà esser rivista ancora un po' di volte (credete che dal post precedente non abbia avuto momenti per dedicarmi al nostro Dan?).
Forse un anno di tempo non basterà per vedere il pargoletto.

Ma Max mi ha confermato che il progetto non si fermerà.

Insomma: la corsa contro il tempo cambia le sue regole.
Ma noi continueremo a correre.

(sperèm! :-p )

giovedì 20 gennaio 2011

20/01/2011 (meno 83.307 al BigT) - Demoni della scrittura


Dove ero arrivato nel descrivervi il mio modus operandi?
Un modus opinabile, personale, in fieri, per ora metodo-non-metodico...
Ah, sì, al nuovo compromesso.

Dunque: ero arrivato ad avere il contenuto tavola per tavola, ma non la sceneggiatura.
potevo tentare il compromesso all'americana, un'ipotesi già vagliata con Max. In pratica (e generalizzando assai) il soggettista manda le informazioni essenziali sulla tavola al disegnatore: qui c'è lotta, qui ricordati che voglio un'esplosione, qui dialoghi e ci sarà una svolta importante etc.
La regia è affidata al disegnatore (che diventa, nella pratica, un co-sceneggiatore), poi il titolare dei testi prende i layout, eventualmente rivede, e mentre il disegnatore fa le matite, lui fa i dialoghi.
Compromesso comodo per uno come me che pensa più a parole che per immagini.

Ma ho deciso di tentarmi la scelta dura. La scelta della sceneggiatura all'italiana, dove la regia è lasciata allo sceneggiatore.
Certo, nel nostro team questa scelta è meno drastica: comunque io sono ancora inesperto alla mia veneranda età, comunque Max non è un disegnatore-esecutore, e rivedremo insieme tutto quanto.
Ma sono ostinato, e DanG.E.R. è una mia idea, e vorrei che questo figlio mi assomigliasse il più possibile (e qui mi ripeto dai post precedenti). Oltre tutto non abbiamo l'assillo delle scadenze editoriali, ma solo dei nostri appuntamenti.
Così ho deciso di prendere quanto più possibile il modello italiano: si cresce affrontando le difficoltà, o per lo meno tentando di risolverle senza scegliere sempre e comunque la via più semplice.

Così il nuovo compromesso è stato su questa linea.
Sulla base dello scalettone ho deciso di farmi degli orribili layout personali. Nulla di definitivo, per carità: volevo solo vedere se riuscivo davvero a "farci stare" ciò che volevo in ciascuna tavola, e come era più o meno il ritmo.
A ripensarci non sono veri layout, in realtà.
I miei orribili cerchietti con le gambette sono sempre nella stessa posizione all'interno della vignetta. Non c'è un minimo di scorcio. Le espressioni sono nella mia mente, ma di certo non in quella carta.
Però questa operazione mi ha permesso di avere un po' più di confidenza quando sono passato alla vera sceneggiatura.
Finalmente sono riuscito a riguardare le ipotesi di tavola non nella mente, ma su un foglio, come se leggessi davvero un fumetto (orrendamente disegnato, a dire il vero!). E ho anticipato le obiezioni di Max: se è una scena "grande", perché finisce in una vignetta piccola? Come posso farci stare settantacinque vignette in una tavola, solo perché altrimenti non mi bastano le tavole?
Insomma: con gli orridi ***layoutINI*** ho iniziato a fare le dolorose scelte.
E infatti il lavoro è andato estremamente a rilento.

Poi ho finito i layoutini. Li ho rivisti un po’, poi mi sono seduto al Pc.
E lì è arrivato il furore: 6 ore di fila (salvo interruzioni necessarie) e la sceneggiatura è venuta fuori. Con correzioni al layout di tavola mentre scrivevo, ma che sono venuti naturali, e per nulla d'ostacolo.
Se ci ripenso sono stato fortunato: mentre scrivevo ho rivisto il layout della prima tavola (della prima!) e non mi sono bloccato a rivedere tutte le altre. Il demone mi ha preso, spero solo che non sia stato per la mia dannazione (lavoro infogato, ma brutto), ma per la ma salvazione (non un capolavoro, ma qualcosa di dignitoso).

Ora ho lasciato il tutto nel cassetto per riposare un po' e distanziarmene: tra un paio di giorni rivedrò il tutto con occhi più neutrali e si ricomincia con le correzioni.
Sperando che il nuovo demone, quello dell'LL=SM (Labor Limae=Sega Mentale), non sia il vero nemico.

martedì 18 gennaio 2011

18/01/2011 (meno 83. 309 al BigT) - Protocolli, ordine e (in)disciplina




Nell'ultimo post raccontavo del "furore" che mi ha fatto completare la prima stesura della parte iniziale di DanG.E.R.

Ma come ho proceduto?
(Se vi interessa, naturalmente... ma se mi leggete, evidentemente vi interessa)

Allora...
La fase di ideazione è partita due mesi fa. Avevo l'idea generale di DanG.E.R. (che prima o poi vi farò sapere... quando saremo in stampa, of course! :-p ), ma mancava l'applicazione pratica. Giusto due o tre spunti, una frase da inserire in un qualche punto cruciale, una scena, la città...

Poi la lettura di un capolavoro della letteratura (by Buzzati, ma non vi dico quale) mi ispira la scena iniziale.
Con i cavalli.
E le future maledizioni di Max.

La scena non bastava: era carina, un buon inizio (spero!), ma non dava l'ossatura all'albo.
Così ci ho aggiunto la classica contrapposizione tra due modi di vedere lo stesso sporco lavoro: da qui la scena del pugno che sarà uno dei climax del primo capitolo.
Lo darà il nostro Dan, e lo darà a uno che non era il caso di toccare, ma ciò vi basti.

Poi ha lavorato l'inconscio per la seconda parte.
Dopo aver realizzato il soggetto, ho scoperto di aver letto distrattamente un articolo su una delle costole di Focus. L'avevo completamente dimenticato, ma evidentemente ho lavorato in remoto... e lo avevo inserito nel soggetto, senza minimamente ricordarmi cosa mi aveva ispirato!
Figuratevi che ero convinto di aver fatto ricorso ad una lettura di almeno quattro anni fa di uno degli albi "Un uomo, un'avventura" della Bonelli...
Comunque questo episodio dava la possibilità di raccontare uno degli aspetti più singolari del mondo di DanG.E.R.: ovvero la vicinanza tra argomenti e luoghi lontani, e la possibilità di passare dall'uno all'atro con facilità.

Direte voi: quindi le storie del mio Dan sono il solito fantasy? La solita SF?
Beh, lo spunto è diverso e... insomma, vedrete!

Torniamo a come ho proceduto.
Raccolte le idee, ho scritto il soggetto dell'intero albo e dei singoli capitoli.
A questo punto c'è stato il primo blocco, il dubbio delle scelte di cui parlavo in un altro post.
Ero già avanti nella (ahimè) selezione, ma il "fissare" definitivamente cosa sarebbe stato sceneggiato e cosa no... beh, questo mi frenava. Mi faceva girare intorno al problema. Mi impediva di arrivare a una conclusione decente.
E, ve l'ho già raccontato, mi impegnava la testa in una sequela di "non riesco ad andare avanti, avrei dovuto scrivere e non ci sono riuscito".
Spazzatura insicura che occupa tutto il mio processore mentale, impedendo di elaborare ciò che serve davvero.

Stronzi virus informatico-segaioli mentali!

Quindi il compromesso.
Un passino avanti, ma senza correre verso la meta.
Ed ecco un soggetto più dettagliato, quasi uno scalettone con qualche dialogo. Comunque con tutti i punti cruciali.
Il che mi ha consentito il passo successivo, cioè stabilire, sulla carta, ciò che accadeva tavola per tavola.

Per le prime tavole (il prologo alla storia) il compromesso equivaleva alla sceneggiatura: sono tavole informative, che spiegano gli elementi cardine del mondo di DanG.E.R. prima del nostro Dan.
Ho scelto il modello Akira di Otomo (azz, l'ho letto per la prima volta vent'anni fa!), per evitare l'alternativa del cartellone alla "Star Wars" o alla "Custodi del Maser". Forse sarebbe stato più comodo per me: ho più abitudine alla parola libresca che alla parola fumettata.
ma si sta facendo fumetto, e quindi bisognava buttarsi.
Rischiare subito per allenarsi al dopo...

Così ci siamo visti con Max, abbiamo layoutato e via.
Qualcosa era messo in saccoccia, ma il più rimaneva.

Non ho avuto il tempo di rivedere per le feste il soggetto. Ve l'ho già detto: tra tempo assoluto scarso e tempo mentale disorganizzato, non rimaneva tempo materiale per affrontare il problema e risolverlo.
Così ho contato sulla sedimentazione, sullo scritto nel cassetto di Catulliana memoria, sullo "spero che mi venga l'ispirazione".
Che non veniva.
Non riuscivo a visualizzare. Sapevo cosa ci doveva stare nella tavola, ma non vignetta per vignetta.
Ho studiato il calcestruzzo, ma mancavano i mattoncini.


Serviva un altro passo, un nuovo compromesso.