giovedì 12 luglio 2012

Zeitgeist (meno 1.1 al BigT)




Uno spettro si aggira per il mondo (della creatività).
E' lo spettro del “Ma questo io l'ho pensato X anni fa!”.

Pensateci.
Non vi è mai capitato di riflettere sul fatto che quella serie figa che c'è sul web è 'QuasiUgualeAnziNoèProprioQuelloCheAvevamoPensatoQuandoAvevamo17Anni'?
Non vi è capitato?
A me sì.

In due giorni mi è capitato di
a) guardare QUESTO

(il video è stato rimosso dal web per richiesta di Shueisha sigh! Comunque era un primo espisodio con scontro di divinità ambientato in Sardegna)

b) leggere QUESTO


c) rivedere episodi di QUESTO


E stramaledire, dopo gli inglesi e gli spagnoli (4-0, malditos e malditas las nuestras pippas a cientrocampos...), i giappinghi e il borgataro.

Perché idee simili le avevamo avute già noi.

Ora: non è che sto per fare causa per 'furto' di idea (ma quando mai? E come avrebbero potuto sapere le nostre elucubrazioni da nerd?), né ho la brama di mettere il “ma c'ero prima io” che spesso prende nei commenti ai blog\profili più di moda (quindi non parliamo di questo blog).
No, è soltanto l'occasione per una riflessione sul mondo del fumetto e, più in generale, della creatività.
Perché i tedeschi, che di spettri ne sanno, hanno un nome per le idee che circolano per l'Europa ma che solo quelli più determinati sanno sbatterti in faccia: Zeitgeist, lo Spirito dei Tempi.

Ora, Zeitgeist vuol dire anche una marea di altre cose, ma siccome di tedesco ne so poco, mi piace pensare che la parola qui ci stia bene. Nel mio personalissimo vocabolario, con “Zeitgeist” intendo quelle idee “che sono nell'aria”, di tutti e di nessuno. In attesa di concretizzazione.
Se qualcuno concretizza.
Che arrivano a te, quando hai tanti sogni, direttamente via Iperuranio. E tu, che sei uno sfigato nerdeggiante, ci fantastichi sopra, costruisci, rimandi, finché non le realizza qualcun altro.
Voler raccontare una storia comporta rischi. Sempre. Uno dei principali che ho sperimentato sulla mia pelle quando facevo giochi di ruolo è che per qualcuno (in quel caso io) lo scenario di sfondo può diventare più importante della storia da raccontare. Che finisce per non essere raccontata.

Ora.
Siamo figli del postmodernismo, del citazionismo, dell'-ismo con suffisso variabile. Siamo una civiltà che non riesce a riciclare i propri rifiuti solidi, ma ci riesce benissimo con quelli umani (angolo della demagogia: politici, cantanti, attori, calciatori...) e con quelli spirituali (movimenti culturali, mode, frammenti di testo, idee per film\fumetti\film\video\film...).
Quindi, ad esempio, l'idea di The Big Bang Theory non è che possa considerarsi inaspettata.
Un mondo che più o meno nello stesso anno aveva partorito Man-Thing per la Marvel e Swamp Thing per la DC, come poteva farsi sfuggire il vasto mondo dei nerd?
Nerd guardati con occhio amichevole, per beccarsi il pubblico nerd che ride di sé stesso ma senza farsi male e per avere una identificazione in positivo con i propri “eroi sullo schermo” (come i comici ebrei USA, che spesso sono autoreferenziali alla propria comunità), ma abbastanza “alieno” per attirare quelli che hanno bisogno di avere una “identificazione in negativo” (non sono un nerd come quelli, ma ne conosco un sacco, guarda quanto sono ridicoli!).
OK. Nel 2006, sulla base di una tavola realizzata in uno stile umoristico da un disegnatore che conosco, mi viene in mente di spostare in ambito fumettistico un'idea avuta all'epoca del mio mollamento da parte della mia ex storica (sì, Signor Leopardi, Herr Beethoven e Lord Byron, concordo: un po' di sofferenza fa venire voglia di comporre).
Niente capolavoro, sia chiaro, ma una storiellina carina (tale mi sembra ancora oggi), senza troppi buchi di soggetto, che poteva andare. Tant'è che la presentammo a un rappresentante della Beta Edizioni (la lettera greca è stata modificata per tutela della privacy, come direbbe ZeroCalcare) che ce la segò più o meno senza leggerlo a un tavolo della pizzeria, solo perché nella lettera di presentazione che gli avevamo dato col cartaceo avevamo scritto “progetto per un fumetto” e non “progetto per un libro”. Magari ricordo male e mi scuso nel caso, magari lo ha anche letto e pietosamente non ci ha fatto sapere che provocava effetti collaterali indesiderati (tipo la pizza che prendemmo quella sera). Magari non ha avuto tempo per risponderci. Magari le inondazioni, le cavallette...
O semplicemente, cosa che noi che vorremmo non capiamo, chi è “arrivato” dall'altra parte della produzione non ha voglia di leggersi le decine (?) di cose che le (non “gli”, visto a chi lo presentammo) vengono presentate. Succede. Io leggo i temi dei miei alunni per lavoro, ma non so se leggerei le loro composizioni aggratis. Magari perdo un capolavoro. Magari guadagno dieci minuti della mia vita da dedicare a questo blog.
Sta di fatto che l'idea non ha futuro.
Quindi finisce nel dimenticatoio assieme ai vari progetti che si dovevano realizzare con il disegnatore di cui sopra.

Poi esce The Big Bang Theory. E io a dirmi\dire ad altri amici che erano con me nella fanzine dell'epoca: “Ceeeeeee! Guarda che assomiglia tanto all'idea che avevo avuto! Vita quotidiana di nerd!”.
Poi leggo ZeroCalcare e mi dico\dico agli altri amici etc.: “Ceeeeeee! Guarda che assomoglia tanto all'idea che avevo avuto! Il nerd interagisce con personaggi dell'immaginario collettivo come se fossero veramente reali!”.

Poi vedo “Kam-pi-ooo-niiii” e dico: “Ceeeeee! […] Ma questo è un mix tra l'idea di Antoine su XXXnaan e mia e di Troia Roar sui ZZZmi!” (non ho pezze o un timbro di “visto censura” a disposizione per occultare i titoli degli immortali capolavori)

Emmmavaffangùùùùùùl.
Lo Zeitgeist si era fatto “odorare” da lontano in anticipo, e noi (io) che non abbiamo saputo onorarlo con offerte di realizzazioni, abbiamo perso il treno.
Qualcuno, invece, seppure dopo (o magari prima? Chi lo sa), ha prodotto. E ci ha lasciato la magra consolazione che l'idea funzionava.

Specifico: lungi da me dire che se mi fossi mosso avrei fatto una cosa altrettanto divertente quanto quella di ZC, o spettacolarmente standard come Campione.
Non lo so.
Il vero problema, il vero rischio, è che forse non lo saprò mai. Perché se non si realizza, un'idea fugge. Quello che conta è ciò che fai, non ciò che idei in una notte d'estate (o in anni di limatura che non da' esito).
Perché non conta essere in un ambiente stimolante, fatto di potenziali innovatori, se nessuno si prende la responsabilità di concretizzare i sogni. E' probabile che se uno parte, apre una porta e gli altri seguiranno (vedi il Atene del V secolo, Firenze del Rinascimento, la Francia dell'Illuminismo, la Gran Bretagna degli anni '60...), ma se nessuno parte per primo...
Questo è uno dei rischi del fare fumetto.



Cosa fare dunque, ora?
C'è chi continua a cercare questo spettro nella macchina (o nel nocciolo) e a raccontare sempre la stessa storia perché non ha mai finito di raccontare quella storia come avrebbe voluto.
E chi cerca di far finta di essere in ritardo quando era in anticipo, semplicemente per dire di esserci stato.
Oppure resta un'idea da raccontare da vecchi e stanchi alla locanda, davanti a un quartino di rosso dopo aver maledetto le donne, il tempo ed il governo, esaltando ciò che non è stato.

Uno spettro.

Immagini e links dal Web, qui usati per illustrare lo sfogo.

sabato 7 luglio 2012

Il mutante come metafora: gli X-Men del primo ciclo di Chris Claremont (meno 2177.2 al BigT)


Riprendere vecchi articoli fa riprendere vecchi fumetti.
Ecco, quindi, che dopo aver recuperato il mio vecchio articolo sull’antisemitismo come veniva visto negli X-Men di Claremont, ho recuperato un po’ di storylines degli X-Men di quell’epoca d’oro. Rileggendole, mi è venuta voglia di ampliare il discorso analizzando alcuni albi dove si dava una visione del razzismo in generale (e non solo dell’antisemitismo) dato da Claremont. Un grazie ad Antonio Pala che, in epoche passate, aveva dato numerosi e preziosi spunti sul tema.



Se si dovesse indicare "LA" serie supereroistica (SH) degli anni '80, senza dubbio si dovrebbe indicare The Uncanny X-Men della Marvel. Watchmen ***non*** è un fumetto di supereroi, e comunque nasceva come "progetto chiuso" a 12 numeri; gli X-Men di Chris Claremont, vero deus creator della serie per quindici anni, partendo da un'idea considerata perdente (gli "Originali" X-Men avevano chiuso anni prima), in migliaia di tavole sono diventati la miniera d'oro dell'editoria mainstream USA, con i loro spinoff, le loro imitazioni, e alcuni cicli (Fenice Nera, Magneto Trionfante, solo per dare due punti all'inizio e alla fine della cavalcata) che hanno segnato uno dei vertici del fumetto statunitense di genere.
 
Uno dei motivi del grande successo della serie Uncanny X-Men negli anni ’80 è stata senza dubbio la quantità di significati e di livelli di lettura che Chris Claremont è riuscito a inserire nelle loro storie, che non hanno comunque mai perso la patina superficiale di "normali" storie di supereroi con scazzottate e salvataggi della Terra dal malvagio di turno. 
Oltre all'inserimento di sottotrame (in alcuni casi almeno quinquennali come quella di Maddie Pryor!) coinvolgenti, alla caratterizzazione dei personaggi sia psicologica che linguistica ("Sono il migliore in quello che faccio, ma quello che faccio non è piacevole"... devo proprio dire chi sta parlando?), alla sequenza da soap opera di morti-e-resurrezioni, i mutanti di Claremont sono stati descritti (non a torto) come metafora dell’adolescenza, pubblico privilegiato negli eighties del fumetto si SH. 
Agli adolescenti gli X-men si rivolgevano non solo come personaggi vicini per età (Kitty Pryde, soprattutto) e "quotidianità" (in fondo la X-Base è una scuola!), ma soprattutto permettevano una proiezione catartica: l'adolescenza è l'età in cui più spesso ci si sente “diversi” e respinti dalla società, senza altra motivazione che l'essere "se stessi" e "diversi" dagli altri, dalla società codificata e immobile nelle sue regole.  Gli X-Men, gli eroi perseguitati, sono adolescenti. 
Non sono una famiglia "pubblica" inserita nella società (come i Fantastici Quattro) né un gruppo "dell'alta società" strutturale al sistema (come i Vendicatori, sorta di "polizia SH" formata da riccastre, industriali, dei, eroi di guerra, inventori...), ma neppure un gruppo di emarginati per ragioni quasi ovvie come i Difensori (un mago, un iroso folle come Hulk, un mezzo demone, una valchiria, un alieno...).
Gli X-Men sono tra noi, potrebbero essere un vicino, un amico, un fratello. "Diverso" sostanzialmente perché gli altri non riescono ad accettare la sua straordinarietà, ma anzi la temono.


Ma Claremont ha cercato di sfondare questo primo livello. Ha cercato di rendere la serie appetibile anche per lettori post-adolescenti, di far crescere il fumetto insieme ai suoi lettori. E in questa ottica, l'emarginazione dell'adolescente è stata il punto di partenza per arrivare a tematiche più adulte, motivate non da una condizione esistenziale più o meno temporanea, ma dovuta alla "innocente" appartenenza a un gruppo.
Insomma: dall'ostilità e non riconoscimento della differenza dell'adolescente, la serie è presto passata a raccontare la paura e l’intolleranza anche violenta verso chi è “diverso”. 
In una parola gli X-Men sono diventati una metafora del razzismo.

Nelle storie di Claremont l’intolleranza verso i mutanti assume toni via via sempre più “quotidiani”. Così le storie alternano “supercattivi” come i classici alieni invasori o le varianti cosmiche del potere incontrollato (la Fenice Nera non è che una variante esagerata e potenziata di Hulk), a "cattivi" più terreni e più subdoli: le persone di tutti i giorni, gente che si ritiene fondamentalmente “buona” ma che non esita a scaricare sul “diverso” la colpa dei mali della società. 
E questo atteggiamento, purtroppo così proprio delle società miste come quella americana, è talmente diffuso e realistico, che le poche volte in cui un “umano” prende le difese dei mutanti quest scene appaiono quasi forzate e irrealistiche (vedi l'episodio di Rogue da Bloomingdale, in The Uncanny X-Men #210).

Mi sembra che in questo primo ciclo di Claremont, due episodi siano particolarmente significativi, sia per contenuto narrativo che come momenti successivi dell’approccio di Claremont al problema razzismo: la saga dei “Giorni di un Futuro Passato”, e la prima visita degli X-Men a Genosha.


a) Giorni di un Futuro Passato: la pulizia etnica diventa "pulizia genetica”
Alcune aggiunte sembrano doverose rispetto all’articolo sull’antisemitismo, che ha affrontato alcuni aspetti degli stessi albi.
I numeri 141-142 della serie "The Uncanny X-Men" (il cosiddetto ciclo dei "Giorni di un Futuro Passato" - d'ora in poi GFP) formano, dopo quello della Fenice Nera, sicuramente il più famoso ciclo di storie dei mutanti ad opera di Claremont e John Byrne, a partire dalla copertina pluri-omaggiata (e, nell'immagine qui sopra, trasformata in statuetta, in quanto icona riconoscibile del fumetto di quel periodo). 
E a ragione: è uno dei momenti più alti della distopia a fumetti, l'utopia negativa. 
Da questi due albi sono derivate sottotrame lunghissime (la storia di Rachel, la seconda Fenice, in vari episodi di X-Men e di "Excalibur"; la vicenda di Achab in "Giorni di un Futuro Presente"; varie situazioni legate a Cable), ma soprattutto essi sono stati i modelli per diversi "futuri alternativi", in cui gli eroi si sacrificano per impedire che il futuro divenga realtà. 
Solo per restare a saghe degli anni '80, si possono fare gli esempi del ciclo della “Pietra dei Tempi” della JLA di Grant Morrison, o il mai pubblicato progetto “Twilight of the Superheroes” di Alan Moore (vedi le ipotesi più probabili della Storyline in http://www.ultrazine.org/ultraspeciali/twilight.htm). E negli anni '90, dopo l'abbandono della serie da parte di Claremont, gli “X-Men” (le virgolette sono d’obbligo) furono protagonisti della saga de “L’era di Apocalisse”, in cui cambiano le circostanze occasionali e l'aspetto superficiale, ma la sostanza rimane identica. 
Più recentemente, l'episodio 4 della terza serie di "Misfits" del novembre 2011 (in italiano "Cambiare la storia") segue, tutto sommato, le regole codificate in questi albi. E ci sembra quasi ovvio: la serie inglese parte dai presupposti degli X-men, così come codificati da Claremont, autore inglese.

Perché questa influenza? 
Non si tratta, ovviamente, di questioni di primogenitura: nella letteratura non mancano i futuri distopici, e nei fumetti altri Elseworlds o Terre Ennesime avevano dato spunti in questa direzione.
No. La co-creazione di Claremont e Byrne (i due interagivano nella costruzione delle storie) è stato così miliare per la sua capacità di descrivere un cupo futuro dai colori netti di un incubo razzista, costellato di campi di concentramento, coprifuoco e legge marziale.
L'abbiamo detto: il modello è quello della Germania Nazista, ma il mondo dei "Giorni di un futuro passato"  non si può ridurre alla semplice proiezione fantascientifica della Shoah.

Innanzitutto nei nemici.
Le Sentinelle non sono una novità nella saga dei Mutanti, anzi. Ideati dal dinamico duo Lee\Kirby (e, come sempre in questi casi, la paternità dell'idea è discussa), sono apparsi per la prima volta nel 1965, nel 14° numero della serie originale. Sono riapparsi altre volte nella serie originale e lo stesso Claremont li ha usati per la storyline culminata col numero 100 della serie.


Nulla di nuovo, si dirà. Un vecchio nemico. Ma in quei numeri Claremont insegnava che bisognava diffidare del fatto che i "vecchi nemici" avrebbero avuto per sempre le "vecchie caratterizzazioni": l'esempio più chiaro è quello di Magneto.

L'idea delle Sentinelle, disumani robot votati alla caccia dei mutanti, di per sé segue una logica interna alle serie. Per affrontare un SH ci vuole o un altro SH, o delle armi pesanti, come tanti episodi di Hulk ci hanno mostrato. Ma se la società ha paura del superumano, è ovvio che le soluzioni alla "Civil War" hanno una pecca di fondo: affidarsi a un SH (gli esempi classici di "devozione al sistema" sono Superman e Iron Man) per reprimere gli altri SH richiede la necessità di controllare il proprio "soldato", o semplicemente si sta solo spostando il problema a un livello ulteriore. 
E' ovvio, quindi, che la "fobia mutante" non può appoggiarsi a un altro mutante o a qualcuno di tanto simile ai mutante nelle capacità, da poter essere confuso con questi. È lo stesso motivo per cui Alan Moore creò il suo ancor più sinistro cacciatore di supereroi, Fury, sulle pagine di “Capitan Bretagna” (scritto tra l'altro proprio da Claremont).

In cosa le Sentinelle di GFP sono diverse dalle Sentinelle finora viste? 
Basta guardare  le vignette qui a fianco. Una "normale" scena d'azione in stile X-men, con un "lancio speciale", finisce in un modo imprevedibile: Wolverine viene annichilito.
Nessuna pietà, nessuna speranza.  Per fare una "pulizia etnica" che è una "pulizia genetica", serve disumanità. Perché è, ahi noi, facile attribuire la diversità a chi ha un colore diverso della pelle, una religione diversa, una famiglia diversa... basta un'etichetta, e vicini di casa rispettati e con cui si va a prendere un caffè, diventano subito nemici da uccidere perché "invadono la nostra terra". Ma quando si tratta non di vicini, ma della nostra stessa famiglia? Quando non c'è colore della pelle, religione, provenienza... solo macchine spietate possono fare queste azioni. E le fanno.

Si dirà che Claremont, in un futuro distopico (e che sarebbe stato annullato dalle azioni degli eroi) si poteva permettere delle morti che nella serie regolare non poteva. Questo va corretto: la Fenice Nera era già morta. Non un personaggio secondario, un Thunderbird o uno Spadaccino dei Vendicatori (personaggio che, tra l'altro, sarebbe tornato), o una serie già chiusa, come quella di Warlock, ma la Fenice.

No, non credo che Claremont avesse paura di quello. Anche perché negli scontri successivi con le Sentinelle o con Nimrod, che delle Sentinelle era l'evoluzione, Claremont non concede questa brutale efficienza.

Ecco: il principio è proprio quello della brutale efficienza. Nel futuro di GFP non c'è la sospensione dell'incredulità che è propria del lettore o dell'eroe. Le Sentinelle uccidono, è quello che sanno fare meglio. Ma le Sentinelle non sono più guidate da un Master Mold che travalica il compito datogli dal creatore umano: le Sentinelle di GFP sono macchine completamente guidate dagli uomini.
Gli uomini vogliono la morte dei mutanti, senza nessun altra ragione che non sia la paura. E non esitano davanti a nulla, seppur delegando il "lavoro sporco" ad altri esseri. Le Sentinelle sono macchine: lo sterminio è una questione di obiettività.
Più avanti, quando il mondo di GFP sarà ripreso e ampliato, si spiegherà che sarà un umano, Achab (vedi il seguito "Giorni di un futuro presente"), a ridurre in schiavitù Rachel Summers costringendola a dare la caccia ai suoi stessi simili. E sono stati gli umani, in risposta all’assassinio del senatore Kelly, a costruire le Sentinelle e ad aprire i campi di concentramento.
Non alieni, non supercattivi, non folli. Il vero pericolo per i "diversi" è dato dagli autoproclamati "normali". E i "normali" accettano, propongono, sostengono iniziative "speciali" che diventano una diversa e distorta "nuova normalità".

Tuttavia, per quanto innovativa, l’avventura si snoda in modo abbastanza convenzionale, con gli eroi da una parte e i “cattivi” dall’altra (siano essi la Confraternita dei Mutanti Malvagi o le Sentinelle). Gli eroi del futuro si sacrificano, ma nel presente il nemico è sconfitto, l’incubo para-nazista scongiurato… almeno per il momento.


b) Genosha: il razzismo come fondamento economico-sociale

Qui non siamo nel futuro, ma nel presente. Qui non siamo in un mondo diverso dal "nostro", siamo nel "normale" mondo supereroistico. Benvenuti a Genosha.
Benvenuti in una sorta di paese scandinavo o in una Svizzera dell'Oceano Indiano. Siamo in una terra  "verde e prospera", in un paradiso che non conosce la miseria della vicina Africa Nera. Ma attenzione: la bella mela nasconde un verme.
Perché la ricchezza di Genosha è fondata sulla schiavitù estrema dei mutanti.


Siamo a quasi 100 numeri di distanza dai GFP (il primo ciclo dedicato a Genosha si svolge in The Uncanny X-Men #235-238), gli X-men sono cambiati (non solo di formazione), sono cambiati i lettori, sono forse cambiate le ambizioni di Claremont. Dopo 100 numeri il messaggio può essere veicolato in modo diverso.
Ecco che gli X-men sono stati uccisi e resuscitati più volte, e ora hanno la loro base in Australia. Nascosti al mondo, scoprono un mondo nascosto. E non un underworld tradizionale. No: Genosha è alla luce del sole. Il male (del razzismo) non è nascosto: solo che i "benpensanti", i distratti, i profittatori, i "tanto non mi riguarda" non lo vogliono vedere.
E, fino all'inizio di questi albi, perfino gli X-men hanno fatto finta di niente.

Benvenuti a Genosha, la distopia non nel futuro in cui il mondo assume caratteristiche mostruose e insieme quotidiane e accettate.

Intanto il nome: Gen-osha, e il richiamo al Gene X sembra chiaro. Ma il nome evoca anche in un anagramma quasi perfetto la terra di Gosen\Goshen (a seconda delle traslitterazioni) in Egitto, dove gli Ebrei furono esiliati e sfruttati dal Faraone "Che non aveva conosciuto Giuseppe".

A prima vista, comunque, si tratta di un chiaro richiamo al Sudafrica degli anni dell’apartheid, alla segregazione razziale come forma di schiavitù istituzionalizzata. 
 Eppure sembra che anche nell'isola felice ci sia stata una pulizia etnica: i mutanti di Genosha quasi non compaiono, a parte alcuni “esemplari” per le vie della capitale e il breve episodio del “treno dei mutanti”, dove un debole tentativo di autonoma del pensiero viene stroncato sul nascere dai Magistrati. Questi sono la polizia genetica che tanto ricorda i Magistrati del più famoso universo distopico inglese prima di V for Vendetta: i Giudici di Judge Dreed. 
I mutanti sono chiusi nelle loro tute sigillate, contenitive, lo sguardo vacuo, un numero di codice stampato sulla fronte: privi di personalità, queste ennesime evoluzioni degli ebrei dei lager (tuta, rasatura, tatuaggio del numero) sembrano veramente anche loro macchine.
Meno mortali delle Sentinelle, ma solo perché i loro padroni umani hanno deciso così.

Claremont è abile in questa narrazione, bisogna riconoscerglielo. Lo scrittore non ricorre alla via più semplice e pietistica, non ci racconta la storia mettendo al centro gli oppressi, anzi: i veri protagonisti della storia sono gli umani di Genosha, i dominatori. E la storia parla non di come il torto viene subito, ma del modo in cui questo torto viene esercitato, come diventa la "normalità del male".

In questa normalità dell'esericizio dell'abuso, abbiamo ovviamente diverse facce e diverse attitudini. 

Sopra i normali cittadini Genoshani, che sono banali profittatori del lavoro mutante e senza nessuna volontà di vedere le conseguenze sugli altri del loro benessere, troviamo i Magistrati, la forza d’élite anti-mutante di Genosha. I Magistrati sono umani e già questo li differenzia dalle Sentinelle.
Decisi e, se serve, spietati, i Magistrati sono sprezzanti verso l'oppresso (i “genoschifi”) ma anche verso i “civili” e le loro regole. I Magistrati sono il ritratto realistico degli appartenenti alle “forze speciali” di qualsiasi esercito.
Claremont si impegna per darne un ritratto vivo e tridimensionale: dai loro gesti più coraggiosi (come l’arrembaggio di Mollo al velivolo di Wolverine e Rogue) a quelli più vili (come i pestaggi contro Rogue, i mutanti del treno e chiunque accenni soltanto a difendere un mutante), sono sempre incredibilmente umani.
Umani convinti di essere nel giusto, come, temiamo, gran parte degli aderenti a movimenti come il Ku Klux Klan, "onesti macellai", si sarebbe detto in altri contesti, sinceramente stupiti che altre nazioni disapprovino i loro metodi. 
Umani, ma non fanatici: per capirci, sono ben diversi dalle orde deliranti disposte a perdere la propria personalità e umanità pur di sconfiggere la "minaccia mutante", orde che troveremo nel successivo, e più semplificante, crossover "Phalanx" o nei seguaci di Bastion di "Operation: Zero Tolerance". Crossover che, occorre dirlo, non sono stati scritti da Claremont.
I Magistrati sono solo degli esecutori, "obbediscono agli ordini", compresa la loro comandante, il Magistrato Capo Anderson: quando il regime razzista collasserà a seguito delle vicende di "Xtinction Agenda", i Magistrati accetteranno di seguire il nuovo governo aperto ai mutanti, perché in fondo sono funzionari del Governo, qualunque sia il Governo in quel momento in carica. O almeno lo faranno finché Genosha non cadrà preda di una guerra civile.
"Obbedire agli ordini superiori, quali che siano", sembra il motto di questa manovalanza dell'oppressione: discorso già sentito nella Germania nazista o nell'Argentina di Videla.

In questa prima visita degli X-men all'isola, il vero teorico dello stile di vita Genoshano, è il dottor David Moreau, il Geningegnere. Il riferimento al romanzo di Wells, l'Isola del Dottor Moreau è chiaro, e ancora più angosciante: l'originale di Wells faceva esperimenti genetici (anche se all'epoca della pubblicazione del romanzo non si usava questo termine) sugli animali, su "specie inferiori", il Geningengnere li fa sui mutanti. 
I mutanti, sembra suggerire Claremont, sono niente più che animali da sfruttare. In una distorta visione che vede l'uomo avere ogni liceità nel trattamento degli animali (e dei mutanti), ci sarebbe da aggiungere.


Il Dottor Moreau è il cardine del sistema non solo perché è il responsabile diretto della “produzione” e della “riconversione” di quelli che chiama impersonalmente (dal suo punto di vista: scientificamente e obittivamente?) moduli genetici (cioè i mutanti). E questa sua superiorità scientifica lo rende una delle più alte autorità della nazione (il cui governo, del resto, in queste storie non compare affatto).
Moreau è un cardine soprattutto perché, pur non essendolo socialmente, è culturalmente la sintesi del Genoshano (umano) medio. Basta guardare alle spiegazioni che cerca di dare a suo figlio Philip, il quale ha scoperto a proprie spese la verità sui mutanti: spiegazioni che si nascondono dietro la “necessità” di creare risorse, il bisogno di difendersi dall’“ipocrita” condanna delle “altre nazioni”. 
Più avanti (X-men #271, uno dei tre scritti da Claremont nell'altrimenti abominevole crossover "Extinction Agenda", che di questi numeri è il seguito) il Geningegnere dirà in un'intervista "al mondo" che "Da quando fu fondata, Genosha è stata un baluardo di tolleranza politica e razziale in una parte del mondo in cui scarseggiano entrambe". E infatti tra i Magistrati, bianchi e neri convivono tranquillamente (anche se i capi sono tutti bianchi). Per avere questa sorta di
'paradiso terrestre', ogni sacrificio è accettabile.
Giustificare l'ingiustificabile: lo sfruttamento dell’uomo su tutto, compreso sull’altro uomo.

Caso diverso, più complesso, è quello del terzo elemento in gioco: la “Press Gang” e gli altri mutanti al servizio dei Magistrati. 
Come possono lavorare per un sistema che sfrutta e opprime i loro simili? Ce ne offrirà una chiave di lettura Havok, che nel successivo ciclo intitolato “Xtinction Agenda” ritroveremo proprio fra le fila dei Magistrati: “Ho scelto di servire lo Stato come un mutante libero… Ho dovuto faticare e sopportare il doppio degli altri Magistrati, per dimostrare la mia fedeltà!" (questa frase tratta da X-Factor #61, a onor del vero, è stata scritta da Louise Simonson).
Non tanto “collaborazionismo”, quindi, ma ancora una volta la volontà di adeguarsi a un sistema che si ritiene “giusto”, semplicemente perché così appare agli altri.

Claremont scava nelle contraddizioni di Genosha, ma proprio perché l'isola è di questo mondo, così simile alla Latveria felice sotto la tirannia del Dottor Doom raccontata in quegli anni da Byrne (oh, guarda: il coautore degli X-men in GFP!), non può regalarci un catartico lieto fine.
Il risultato di questo primo scontro appare, a dire il vero, deludente da un punto di vista puramente supereroistico: gli X-Men non fanno altro che mostrare ai Magistrati che non tutti i mutanti sono disposti a farsi schiavizzare, ma a Genosha nulla sembra materialmente cambiare. 
Ma la loro vera vittoria è sul piano spirituale: aiutano il giovane Philip Moreau a scoprire la verità sul suo paese, e a trovare la forza per dire “no”.


In seguito, Philip e la sua fidanzata Jennifer cercheranno inutilmente di sollevare l’indignazione delle altre nazioni contro Genosha, ma falliranno. Claremont, però, sembra dirci che non si può sperare nelle soluzioni semplici e "dall'alto" date dai SH: se gli X-men avessero rovesciato già in questa fase Genosha, "Kingdom Come" non sarebbe così lontano. 
Ogni vero cambiamento non può essere imposto da superesseri, sembra dirci Claremont, ma deve nascere da ognuno di noi. Non male per un autore-emblema del fumetto seriale (in apparenza) "leggero".
 
Invece il messaggio è più cupo: il fallimento di Phil e Jennifer è dovuto a considerazioni geopolitiche, economiche, strategiche interne a Genosha e dovute aglui altri stati (compresi gli "esportatori di Democrazia"). Se Genosha non commettesse poi l’errore di attaccare direttamente gli X-Men (su istigazione di un loro vecchio nemico, Cameron Hodge), probabilmente tutto continuerebbe come prima.
Invece, per l’aggressività degli umani, per una cieca sete di vendetta che fa parte della semplificazione propria del fumetto SH, si mette in moto una serie di eventi che porta la “terra verde e prospera” nell’inferno di una sanguinosa guerra civile tra umani e mutanti. Questa, dopo mirabolanti trasformazioni varie (Magneto a capo di Genosha, primo stato mutante della Terra, uccisione di Magneto, etc.), porterà alla distruzione totale dell'isola.
Ma questi eventi non sono stati orchestrati da Claremont: già “Extinction Agenda”, che vede la classica "vittoria dei buoni" era un crossover che coinvolgeva tutte le testate mutanti, comprese quelle affidate a Louise Simonson... quindi non è il caso di soffermarsi oltre. 

Concludendo…(ma anche no)


Il discorso sul razzismo negli X-Men di Claremont non si esaurisce certamente qui: si potrebbero citare mille altri spunti, dalla follia provocata dallo “Shadow King”, all’incontro fra Ororo e i Fenris in Africa, o alla sequenza del capo Cheyenne poco prima della “morte” degli X-Men a Dallas.
E anche immediatamente dopo aver lasciato gli X-Men, lo scrittore inglese ha continuato a toccare queste tematiche: sulle pagine dei “Sovereign Seven” troviamo infatti la Rapture, un culto che si diffonde di pianeta in pianeta spingendo le popolazioni a uccidere i “diversi”.
E poi, anni dopo, Claremont avrebbe ripreso e lasciato di nuovo gli X-Men…

Claremont ha trasformato il fumetto di supereroi, senza dubbio. Non lo ha fatto in modo dirompente come un Alan Moore, di certo, ma lo ha fatto in un modo più continuo, più "all'interno del sistema" di quanto non abbia fatto l'altro grande barbuto inglese, in modo altrettanto capace di sfruttare diversi livelli di lettura e citazioni. Anche Claremont, come Moore, come Gaiman, come Miller, voleva che i lettori crescessero.
Ci piacerebbe dire che il suo intervento abbia avuto più continuatori di quello di Moore, ma non è stato così. Il primo addio agli X-men è stata simbolicamente la fine di quella cavalcata verso l'adultità del fumetto seriale di SH americano. Ci sono stati dei continuatori o autori che hanno trattato parallelamente tematiche profonde, senza dubbio (come dimenticare il lavoro di Peter David su Hulk, durante e dopo Claremont, solo per fare un esempio), ma quella spinta alla riflessione, alla crescita anche anagrafica dei lettori, si è fermata. I primi anni '90 sono stati dominati dalla spettacolarizzazione dei disegni, spesso a scapito della storia; di personaggi che apparivano dal nulla con passato misterioso ma conosciuti da tutti gli altri personaggi ma non dai lettori; di morti e resurrezioni seguite da altre morti, fusioni e resurrezioni... Tutto affidato alla trama e nulla alla psicologia realistica.
Si è spesso "accusato" Claremont di aver fatto del fumetto SH l'equivalente della soap opera: le vera soap opera per bambini e primi adolescenti, invece, sembra essere davvero nata solo dopo di lui. Come la lezione di Watchmen è stata tradotta banalizzandola in una sequela di supereroi psicopatici e "dark", così la riflessione di Claremont è stata resa con una banale ridda di minacce di umani psicotici e razzisti ai buoni mutanti, da concludere con esplosioni e distruzioni di proprietà privata.

La paranoia mutante finalizzata a scrivere altre storie sulla paranoia mutante.

Quale è stata una delle sfide che Claremont ha vinto nella sua caratterizzazione degli X-Men? Ecco, forse il fatto che dalla trasformazione di Magneto in poi, senza dubbio nelle sue opere più mature Claremont non traccia rassicuranti distinzioni fra “buoni” e “cattivi”.
Il razzismo è il nemico (e vorremmo essere tutti convinti di pensarlo), ma i razzisti spesso siamo proprio noi.

Come sempre immagini tratte da Internet qui usate a puro corredo dell'analisi