Il nostro
percorso volge alla fine.
Tecnicamente
questo è l'ultimo dei diversi usi della didascalia che Moore ci presenta nei
diversi albi di Watchmen. L'ultimo uso riguarda qualcosa di simile alle
didascalie, ma che tecnicamente (e due!) è un dialogo.
Cosa
analizzeremo, oggi? Ma le didascalie del capitolo IV, l’albo dell'assolo del
Dottor Manhattan.
La situazione
narrativa è questa: il Dottore è su Marte (Jon Osterman come John Carter), con
una vecchia foto, l'unica foto rimasta di lui prima della trasformazione.
E pensa.
Le didascalie
sono la trascrizione del suo pensiero.
Fine.
Semplice, e
“abituale” nel mondo del fumetto.
Moore è abituale?
Banale?
Ovvio che sì,
certo. I suoi fumetti comunicano in modo comprensibile, quindi attinge
necessariamente a moduli e modelli comuni alla gran parte dei lettori. La
maggior parte della produzione di Moore (e non potrebbe essere diversamente) è
nella linea del codice fumetto.
Moore ha
innovato, ma per lo più lo ha fatto nel solco della tradizione, sfruttando al
massimo e in modo nuovo stilemi già esistenti.
Però in Watchmen
anche la banalità, come usare la didascalia per raccontare i pensieri di un personaggio,
diventa “speciale”.
Cosa rende
“speciale” quest’uso della didascalia?
Il fatto che
Moore non si limita a usare la didascalia per riportare i pensieri del Dottore.
La didascalia è un espediente per rappresentare l'irrapresentabile,
l'inconcepibile: la percezione del tempo che ha Manhattan.
Il Dottore
percepisce, vive contemporaneamente tutti gli istanti del tempo in cui è
vissuto. La Quarta Dimensione (quella di cui abbiamo parlato in questo postprecedente e su cui si torna in From Hell) è qualcosa di diverso per lui
rispetto a noi.
Noi viviamo attimo
per attimo, il nostro solo modo per viaggiare nel tempo è con la memoria, nel
passato, rivivendo gli istanti in cui siamo stati presenti.
Anche il Dottore
non fa viaggi nel tempo, ma lui non è immerso in un flusso unidirezionale come
noi. Lui non rivive con la memoria: lui vive tutti i suoi istanti insieme.
Come avete visto
nella mia confusa descrizione, il vivere nel tempo di Manhattan è alieno da
noi, dal nostro modo di procedere, di concepire, di narrare. Moore si è quindi trovato
nella difficoltà di raccontare questa percezione: usando un codice puramente
verbale forse si può suggerire, ma se occorre visualizzare con immagini (e il
fumetto è narrare per immagini e parole) i problemi si moltiplicano.
E infatti, non
essendo possibile una rappresentazione multi temporale, quando deve fare
sequenze più propriamente narrative Moore deve ricorrere (anche in quest’albo)
a una più banale sequenza di flashback. Di più sembrava difficile si potesse
fare.
Ma quando si
passa alla sequenza riflessiva, all’espressione della propria interiorità, la
carenza di possibilità grafiche porterebbe a ciò che si deve evitare nel
fumetto: dire che sta accadendo qualcosa, invece che farlo vedere.
Così Moore ha
sfruttato qualcosa che già esisteva (la didascalia-pensiero) in modo diverso. I
flashback narrativi con le immagini rimangono lì, necessari. Ma la vera novità
sono le didascalie riflessive, in cui i diversi pensieri sono relativi a
diversi tempi, coesistenti.
Si potrà obiettare
che noi leggiamo questi pensieri, queste percezioni, in sequenza, uno dopo l’altro,
e che potremmo ipotizzare che il Dottore ha “visioni” in sequenza del passato e
del presente, più che una percezione della sincronicità. Ma il limite è la
nostra modalità di percezione, e di conseguenza la modalità di rappresentazione
attraverso un medium. Viviamo attimo dopo attimo, i nostri media sono impostati
sul tempo che scorre.
E così,
attraverso loro, possiamo avere una intuizione, un assaggio di ciò che
percepisce, di come pensa Manhattan. Nei limiti in cui un uomo può leggere e
raccontare il modo di pensare di Dio.
C’erano
alternative?
Ovviamente sì,
forse, probabilmente, ma non mi vengono in mente!
Sicuramente
sarebbe apparso quasi ridicolo l’uso delle altre modalità di espressione del
pensiero nel fumetto, ovvero il balloon con pipetta a bolle o la frase scontornata
e “galleggiante in aria”.
La seconda
modalità prevede una invasione dello spazio disegnato abbastanza forte, e nella
mia (limitata) esperienza lo ho visto utilizzato per lo più per singole frasi e per effetti
come la telepatia, più che come espressione del proprio pensiero in un
soliloquio.
La prima modalità
è ugualmente invasiva, e con un gusto più retrò e di livello “più popolare”.
Watchmen è immerso negli anni ’80, e fumetti paralleli (Ronin e Dark Knight
Returns di Miller, solo per fare un esempio di fumetto di alto livello
pressoché contemporaneo) hanno fatto accettare la modalità didascalia-pensiero
come innovazione più “adulta”, “sperimentale” (se queste parole non fossero ambigue
in testi che si rivolgono a un pubblico più ampio possibile).
In ogni caso,
questo IV albo è l’unica occasione per raccontare pensieri in tutta la saga di
Watchmen. Le didascalie, lo abbiamo detto altrove, trascrivono scritture,
frasi, mai pensieri.
Il pensiero è
qualcosa di chiuso in ciascun uomo, tranne che per Manhattan, che è ormai
diverso dall’uomo.
Il messaggio che
siamo soli, l’idea dell’umanità per Rorschach, trova la sua visualizzazione più
discreta, ma più chiara, proprio in questa assenza di lettura dei pensieri
altrui.
La chiara banalità
del nostro vivere.
PS. Il vero grande
dubbio che mi riprende ogni volta che leggo Watchmen è questo: ma se il Dottor
Manhattan vive contemporaneamente tutti gli istanti, come può non sapere chi
sia il colpevole, che Laurie su Marte gli farà cambiare idea su una cosa
importante etc?
Due le risposte:
non si può pretendere troppo anche da Moore è la prima. Si è inventato una “nube
di tachioni che risalgono il tempo” che confonde le percezioni di Manhattan, e
che fa una sorta di “interferenza” tra Manhattan del “presente” e i Manhattan
del "futuro". Soluzione debole, simile al “blocco temporale di alcuni secoli”
ideato da Isaac Asimov ne “La fine dell’Eetrnità”. Niente di più che un
escamotage narrativo per permettere a noi la narrazione.
La seconda mi
piace di più, anche se viste le posizioni del Bardo di Northampton sul “parlare
di Watchmen” resta a livello di ipotesi: il rapporto tra il Dottor Manhattan e
Laurie ricalca in alcuni aspetti quello esistente tra V ed Evey in V for
Vendetta. Pur essendo una sorta di superuomo, V ha una pianificazione del
futuro molto simile a quella che potrebbe avere Manhattan. V ha previsto tutto,
e in questa prospettiva “educa” Evey. Manhattan su Marte, tachioni o non
tachioni, dovrebbe già sapere quale sarà l’evoluzione di Laurie e del mondo, e
quello che fa è a uso e consumo di quelle creature limitate che sono gli esseri
umani.
Forse il Dottore
sa tutto, e si limita a far finta di non sapere niente, come nella canzone di
Dylan che fa da epitaffio al primo albo (con le opportune differenze). Solo
così può permettere agli umani di vivere le loro vite, per essere quella “forza
imparziale e del tutto indifferente” che Nixon spera sia dalla parte “giusta”
in caso di guerra.
(e se ne volete sapere di più, leggetevi il mio vecchio ma dorato articolo su Watchmen vent'anni dopo, Lavieri, 2006, a cura di SmokyMan)
Le immagini sono qui
per servire da base per l’analisi, e sono tratte da Internet o da Moore-Gibbons,
Watchmen\Sotto la maschera, I Classici del Fumetto di Repubblica Serie Oro 26.
Copyright degli aventi diritto.
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