LA SINDROME DI TOM SAWYER
Ovvero
DELLA MORTE E DI ALTRI TEMPORANEI INCIDENTI:
ALCUNI MODI DI SFRUTTARE LA MORTE COME MECCANISMO NARRATIVO
NEI FUMETTI SUPEREROISTICI
Ovvero
ANCHE NELL’EPITAFFIO DI CB
SERVE UN LUNGO ARTICOLO PALLOSO A TEMA
A cura di E. Marica
Cacchio, che
sottotitolo lungo ha questo dossier!
E anche il
dossier è troppo lungo!
Dottor J. Frink
0. La più antica professione del mondo – (Un lungo, necessario preambolo psico-(pato)-sociologico e anche nu poc’ filosofico)
Perché un dossier sulla
“morte come meccanismo narrativo nei fumetti superoroistici”?
Ma perché di morte e
morti sono zeppi gli albi dei supereroi! Lo sono fin da quando è
terminata l’innocenza degli anni ’50 e l’irruzione della Marvel
(e del conseguente “realismo”) negli albi dei nostri ipertiroidei
ha modificato le regole del gioco.
Prima c’erano
sostanzialmente storie a sé stanti, una situazione affrontata da un
eroe in un non-tempo, con regole non solo fisiche, ma soprattutto
psicologiche, che non consentivano la presenza della morte. Buoni
contro cattivi, distrazione assoluta, il cattivo in galera alla fine
dell’episodio, pronto a essere di nuovo in libertà…
Poi le regole sono
cambiate, si è cercato più che il sense of wonder di un
tempo, il sensazionalistico. E la morte è spesso un argomento
sensazionale.
La morte tira, c’è
poco da fare.
Dai gruppi rock che non
litigano definitivamente prima di avercelo annunciato (magari prima
di un disco e di un tour mondiale) ad attori decaduti che sbandierano
velleità suicide per attirare di nuovo un minimo di quei riflettori
da troppo tempo puntati altrove, la morte (o comunque la fine) fa
notizia, è una spinta all’acquisto. Un artista o un presunto tale
(meglio se “maledetto”) acquista la definitiva consacrazione solo
post-mortem, e ci saranno orde di fanatici del complotto a dire che
no, quel “grande” non è davvero morto, l’hanno visto in Iowa o
è stato rapito dagli alieni…
La morte è una merce,
nel grande mercato della comunicazione, ed è una merce che tira
sempre: vogliamo ricordare, solo per fare alcuni passati esempi, che
il Poema di Gilgamesh è una ricerca dell’Immortalità che si
conclude con un insuccesso? O la morte di Ettore che gli darà onore
di pianti…/ … finché il Sole / risplenderà sulle sciagure
umane? O quella di Rolando/Orlando? O di Artù?
E ben pochi sono i
fondatori o gli dei delle grandi religioni di cui non sia raccontata
la morte (o per lo meno la scomparsa da questo nostro mondo del
transeunte), morte che diventa sigillo e conferma della propria
divinità o del proprio messaggio…
Vogliamo dimenticare, più
banalmente e con un taglio più “gossip”, il grande affare della
morte di Lady D o di Jim Morrison o di qualche politico? O chi era
Brandon Lee prima di morire sul set dell’unico film di successo che
abbia fatto (qualcuno ricorda Drago d’Acciaio? Siate seri!)?
Da rileggere le pagine
della posta dell’allora “Il Corvo presenta”, zeppe di ragazzi
SINCERAMENTE (bisogna sottolinearlo senza ironia) disperati per la
morte… di un ragazzo giovane sì, ma che non era NESSUNO per loro,
prima della morte prematura. Un ragazzo che loro adoravano e in cui
si identificavano non per la personalità che emergeva nelle
tre/quattro interviste da lui rilasciate, ma per un personaggio
interpretato… e per la morte arrivata proprio quando stava per
spiccare il volo.
Chi è caro agli dei
muore giovane.
Eighteen
‘till I die.
Live
fast, die young and play rock’n’roll…
La morte tira, c’è
poco da fare. Perché la morte esce dal sogno dell’impossibile
identificazione, per entrare in quella della VERA identificazione.
Mi spiego: quante ragazze
degli anni '90 hanno sognato di essere un giorno principesse “modello
Lady D”? Basti pensare che dopo la sua scomparsa uscirono vari
sdolcinati film sull’argomento “toh! Ero una principessa e non lo
sapevo!”.
Ma quante ragazze ne
hanno avuto DAVVERO la possibilità? Quante, pur essendo al posto
giusto nel momento giusto, avrebbero avuto lo stesso risultato? Idem
per i ragazzi desiderosi di identificarsi in Kurt Cobain o, un po’
di tempo fa, in James Dean.
Ma la morte non è
un’illusione: si muore tutti, prima o poi. In un modo
glorioso o sereno o più spesso anche un po’ squallido e triste, ma
si muore tutti, nessuno escluso, ricchi e ricchissimi inclusi.
Neppure le divinità,
tutto sommato, sembrano riuscire a sfuggire a questo fato: muoiono
gli dei norreni nel Ragnarokkr, muore il Buddha, muore Gesù Cristo
(a prescindere dalla fede cristiana: muore in quanto uomo)…
Tutti muoiono, perché
all’interno dell’esistenza dell’uomo è meno certa la nascita
(si può anche non nascere!), è imprevedibile e contraddittoria la
vita, ma la morte… Signori, diciamocelo chiaro: la morte è l’unica
cosa certa della vita (sì, anche le tasse, ma solo per chi le paga).
E ogni mito DEVE
necessariamente costituire un archetipo di interpretazione del reale,
DEVE avere un collegamento con la realtà. Quindi possono essere
dubbi alcuni miti sulla creazione, possiamo avere dei dubbi su cosa
avviene “dopo il grande salto”, ma non ci sono dubbi sul fatto
che si salti. Che si muoia tutti, insomma.
La morte ci rende
uguali: la morte di un eroe, di un mito dei nostri o di altri
tempi, ci fa davvero identificare con lui. Solo in occasione della
morte superiamo quella barriera (sottile apparentemente, ma enorme
nella realtà) che ci separa dal nostro idolo per farlo uguale a noi.
La sua morte è la perdita di una parte di noi e ci colpisce, perché
ci ricorda che anche noi non sfuggiremo. Perché noi, così più
piccoli, più insignificanti, più deboli dei nostri feticci, non
possiamo riuscire dove anche “loro” hanno fallito.
Il più antico mestiere
del mondo è quello del becchino, c’è poco da fare.
Spoon River per tutti,
signori.
0.1
La morte dei supereroi – (Il preambolo scende nello specifico)
Specie nei fumetti
seriali supereroistici, i nostri amati comics occidentali, quelli che
adorano il termine “Next” o “Continua” nell’ultima vignetta
dell’ultima tavola dell’albo, la morte è usata a man bassa[1].
Ma la cosa particolare è che la morte dell’eroe non segna QUASI
MAI una fine della serie: anzi, molto più spesso è un
espediente alla “Beautiful” per ravvivare l’attenzione su una
serie in difficoltà di vendita (con titoloni in copertina “Qualcuno
non sopravvivrà a questo scontro!”) o in momenti di scarsità di
idee o di tentativi di umanizzare un personaggio (e quindi far
identificare le giovani o vecchie menti divoratrici della peggiori
baggianate con il liso eroe che va in giro con una calzamaglia a
raddrizzare torti).
Già, come se il dolore
per la morte di un nostro caro qualunque, magari di un tranquillo
impiegato, potesse essere rispecchiato dal dolore di un sub-umano che
deve nascondersi dietro a un pirotecnico costume esibizionista per
salvare il mondo…
Bah, lasciamo perdere.
Anzi, no: la morte di un
personaggio è uno strumento narrativo, ma anche un tentativo di far
sapere ai lettori quanto era figo il morto, quanto gli altri del suo
pseudo-mondo lo rimpiangono e quindi quanto devono essere legati
all’eroe morto i lettori, che quindi devono continuare a comprare
il suo albo per devozione…
E poi perché quel
“Continua?” in fondo all’albo? Quando il
tizio-qualunque-tranquillo-etc. muore, beh, si deve pensare alle
spese funerarie e basta, ma quando Psicopatico-in-calzamaglia-etc.
muore… vuoi vedere che si salva?
Perché il nostro Psycho
è immortale, o comunque c’è qualche gabbola relativistica (che
so: i buchi neri, il viaggio nel tempo o un’altra dimensione!) che
lo farà tornare, più rinnovato e grintoso di prima, per la gioia di
grandi e piccini!
E che quindi, magari
nella fantasia, anche per il nostro Tizio-qualunque-etc., che pure
non vive in un mondo di inchiostro e carta, forse almeno il sogno di
una ipotetica speranza di fregare la morte (uhm… e se imparassi a
giocare a scacchi?[2]) c’è proprio dietro l’angolo!
La morte è un affare
anche nei nostri fumetti. Un po’ tutti prima o poi ci passano (o
sembrano passarci) e allora tutti fanno come Tom Sawyer dopo
l’avventura nelle grotte: vanno a sentire il proprio elogio
funebre (o ci sarà sempre qualcuno che si premurerà di
ripeterglielo) e poi tornano in pista come se nulla fosse
accaduto.
O no?
Insomma: questo
epitaffiale articolo di una fanzine morta da anni che fa finta di
resuscitare, si diletterà a mostrarvi alcuni esempi di come la morte
sia una grande buffonata, un affare e soprattutto una porta
girevole[3], almeno per il mondo dei supereroi cui, per
pura pietà vostra e degli alberi abbattuti per fare la carta da
fotocopie, ci limiteremo. E prenderemo alcuni albi più o meno famosi
per darvi i fulgidi (tragici) esempi.
Porte girevoli, appunto:
ma solo sulla carta dei fumetti.
[1]
Il caso dei manga giapponesi è ben diverso: le serie prevedono
SEMPRE una fine, benché possano prolungarsi (anche indefinitamente)
nel tempo. I fumetti seriali italiani o USA, al contrario, terminano
principalmente per motivi di vendita; le eccezioni possono essere
dovute a ragioni esterne al fumetto stesso (ad esempio la morte di
Charles Schultz, che non ha permesso la prosecuzione dei Peanuts)
o a prese di posizione epocali e, tutto sommato, tanto atipiche da
essere ricordate “negli annali” (come è il caso di The
Sandman
di Neil Gaiman, concluso per una decisione dell’autore di cui
parleremo più avanti). Ovviamente qui stiamo escludendo i progetti
che nascono come serie limitata.
[2]
Vedi “Il Settimo Sigillo” di I. Bergman
[3]
Si ringrazia Peter David (X-Factor
n.
70) per la geniale metafora.
Spassosissimo post!
RispondiEliminaAttendo il resto.
Arriva! :-)
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