Così come un film in bianco e nero.
Si può rinunciare a uno degli elementi divenuti parte del linguaggio specifico di un medium? Certo. E questo non implica necessariamente negare il medium nella sua essenza e passare a un altro.
Così si può fare un fumetto senza didascalie.
Il lavoro di Berardi e Milazzo su Ken Parker è, a questo proposito, mirabile. Nella ricerca di un nuovo tipo di linguaggio per il fumetto, più vicino al cinema, tra dissolvenze, montaggio analogico e svolta tra pagina destra e sinistra, i due autori (e i loro collaboratori) hanno eliminato gradualmente le didascalie di passaggio e di collocazione spazio-temporale tanto tipiche del fumetto "formato Bonelli".
Insomma: addio alle tradizionali "Nel frattempo..." o "Dieci miglia a Sud di El Paso".
Si può fare un fumetto senza didascalie, come si può fare un fumetto senza parole. Ma che una cosa si possa fare non significa automaticamente che vada fatta.
Rispetto e ammirazione per il duo genovese in Italia e per chi ha fatto la stessa operazione ovunque nel mondo. Hanno aperto la strada, altri hanno seguito, altri no. Il fumetto è di certo più ricco dopo queste esperienze.
Ma dovendo scrivere un nuovo fumetto, come DanG.E.R., mi sono chiesto se vale davvero la pena rinunciare alla didascalia.
La domanda è oziosa. Non tutti i film sono a colori, non tutti sono in bianco e nero.
Ci possono essere fumetti senza didascalie, ma ciò non significa che non ci siano fumetti validissimi con la didascalia.
Come ogni elemento di un linguaggio, la didascalia deve essere funzionale alla narrazione che si vuol fare, tutto qui.
Banalmente vero.
Ma a cosa serve la didascalia, quando si dimostra che il fumetto ne può fare a meno?
Le funzioni che ancora oggi può avere una didascalia sono varie.
La prima che mi viene in mente è l'identificazione.
Per carità: non sto parlando della didascalia che ci nomina il personaggio o il luogo. Parlo della didascalia come parte della struttura irrinunciabile, il mattone necessario che ci fa sentire "a casa", che c'è sempre stato.
Si può (si deve) scrivere Ken Parker senza didascalie.
Ma Tex senza didascalie, forse, non sarebbe Tex. La didascalia diventa un piccolo elemento, forse superfluo, ma che si noterebbe proprio per la sua assenza.
Tex (ma anche Zagor, Martin Mystere, Diabolik, Topolino...) ha le didascalie. E basta.
Se voglio scrivere Tex dovrò mettere le didascalie, o spiazzerò il lettore.
Se voglio fare una sit-com in USA, devo mettere le risate registrate (o fare "Scrubs").
Seconda funzione, ancora una volta identificabile con il "Bonelli style": la didascalia informativa.
Luogo e tempo.
Posso fornire le stesse informazioni col dialogo, certo. Ma è come girare oggi un film in bianco e nero, ma con una storia centrata su oggetti di un dato colore. Posso cavarmela con i dialoghi, ma è più semplice se non giro in bianco e nero, ma a colori. O coloro solo quegli oggetti su cui voglio concentrare l'attenzione del fruitore, come è accaduto con la bambina dal cappotto rosso in Schindler's List.
Detto ciò per il cinema, nel fumetto le didascalie sono una soluzione spesso più comoda di un dialogo, no?
La terza funzione, quella che più mi sembra più interessante per un fumetto inedito, è la didascalia che ci dà la voce fuori campo.
E questa può essere gestita in due modi: come accade in "Scrubs", appunto. O come fa da (quasi) sempre Frank Miller.
Ne parleremo la prossima volta, se vorrete seguirmi.
PS: non parlerò delle didascalie che potremmo categorizzare come "superflue" (quelle che ci ribadiscono cosa si vede già nel disegno) e quelle che, invece, sono da tenere a bene mente, perché "dannose" (il "pippone" che spiega quanto è accaduto... perché disegni e dialoghi non lo hanno fatto).
Da evitare entrambe, ovviamente.
i mitici SPIEGONI bonelliani... :D
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