Qui la prima parte di questo articolo; ricordo che è la versione riveduta, aggiornata e corretta di un articolo uscito originariamente sulla fanzine “Clark’s Bar” oltre dieci anni fa.
300: il fumetto di guerra
visto da Frank Miller
Parte II
IL TRATTO ED I COLORI
E’ un Miller
sempre più “toppiano” quello che si fa apprezzare in 300: la tavola singola è divenuta una gabbia da sfondare, da
aggregare alla tavola successiva, da variare; i neri invadono continuamente
questo nuovo spazio, dando ancora più essenzialità al tratto, ed insieme
miscelandosi con i colori di Linn Varley.
Dagli
sperimentalismi della serie regolare di Daredevil
(in cui era già notevole l’influsso del fumetto giapponese), Miller ha compiuto
passi in avanti, che lo hanno portato a violare alcune regole più o meno fisse
del comic book tradizionale.
Prima le
cosiddette splash pages (le tavole riempite da una sola illustrazione) erano
un’eccezione, ma Miller proprio con Ronin
e Dark Knight prima, e con Sin City poi aveva imparato a
incrementarle per fini espressivi: esse sono divenute quasi uno stacco della
narrazione, un modo per rallentare il ritmo con un quadro dai mille
particolari, a segnalare un momento importante, forse decisivo, con didascalie
scarne, essenziali.
In 300 questo processo giunge alla sua
estremizzazione: l’unità di base non è più la tavola, ma la doppia tavola.
Tutti gli albi sono impostati in modo da partire e concludersi con due tavole
affrontate e sempre, in tutte le doppie pagine di tutti i numeri delle
miniserie, la vignetta principale (spesso l’unica) si estende sulle due tavole
affrontate, seppur a volte prendendo solo pochi millimetri nell’altra tavola. E
sono proprio questi pochi millimetri, a volte inutili ai fini del disegno, a
dirci che tutto questo è fortemente voluto dall'autore.
C’è una esigenza
di spazio, in questa miniserie, l’esigenza quasi di scolpire in una materia
dura e non di tracciare linee sulla carta: si sente l’esigenza di un disegno
epico che si adatti ad una storia epica.
E l’epica (sia
quella antica che la moderna) ha bisogno di ritmi lenti, di grandi spazi, di
paesaggi profondi: dall’ampia pianura dello Scamandro in cui Achille uccide
tanti nemici da rendere le acque del fiume color sangue, alla Monument Valley
in cui corre la diligenza di Ombre Rosse [1].
Miller adegua il
suo strumento di rappresentazione, la sua macchina da presa, alla materia
trattata, e l’effetto è pienamente riuscito. Il tramonto con gli Spartani in
marcia che apre il primo numero; le Termopili, uno squarcio rosso tra i due
enormi blocchi montagnosi, neri e minacciosi; la tempesta che spazza la flotta
persiana [2]; la battaglia mostrata “in soggettiva” dagli occhi di Leonida da
sotto il suo elmo corinzio che fa vedere solo avanti: sono quadri
indimenticabili, scene degne, se la storia fosse stata narrata dal cinema, di
un grande regista e di un grande direttore della fotografia.
E il direttore
della fotografia di questo film è la splendida colorista Linn Varley, compagna
nella vita di Miller e suo indispensabile supporto cromatico nei capolavori
precedenti (vedi Dark Knight). In
precedenza Miller si era orientato nella direzione della sperimentazione del
bianco e nero in tante storie di Sin City
[3]; l’influsso degli europei tra i quali proprio Toppi, ha portato all’uso dei
neri di cui abbiamo già accennato e che si concretizza nelle molte shilouettes,
nei neri pieni che invadono le vignette, nell’alternanza tra neri e non neri:
probabilmente per lo stile grafico di Miller 300 sarebbe stato efficace anche senza il colore.
Eppure l’opera
della Varley non è affatto anonima o superflua: i colori sono sfumati e
mescolati tra loro, e sempre spicca il rosso pieno delle vesti spartane, la
loro uniforme.
L’abilità più
grande è probabilmente raggiunta nei cieli che sovrastano le varie fasi e che
sottolineano e suggeriscono i vari momenti: dal cupo tramonto sotto il quale
sui svolge l’ultima marcia dei 300
(presagio della fine che li attende) al cielo innevato dello scontro tra
Leonida ed il lupo (indizio dell’attimo senza tempo e dell’isolamento dal resto
del mondo che caratterizzano quello scontro); dalla luce sfumata della notte di
tregenda in cui si svolge l’incontro con gli efori (macbethiana notte di magia,
di profezia, di tradimento); alla splendida luce cupa e fioca che sovrasta le Termopili
all’arrivo dei greci e che combinata con
il nero dei monti mostra il muro che deve proteggere la Grecia; dalla tempesta che
distrugge le navi persiane, l’ira degli dei per la presunzione del re, quasi il
kami-kaze, il vento divino che nella
tradizione giapponese salvò il paese dalle orde mongole di Kubilay Khan; al
cielo nero e schizzato di sangue della prima notte di combattimento;
dall’alternarsi di arancione e giallo-oro dei movimenti delle donne di Serse
che seducono Efialte, con le Persiane sembrano quasi delle nuove Salomè o delle
invasate ad un sabba; alle bianche strisce delle scene del massacro finale; e
infine l’alba della carica degli Spartani che chiude la miniserie.
Tutti gli
episodi salienti hanno un loro colore, un colore diverso, il colore adatto.
Ottimi coloristi, Mr Miller ed (ex)signora!
LA TECNICA NARRATIVA
Frank Miller è
un grande narratore, padrone delle possibilità offerte dal medium fumetto.
Un’affermazione
così categorica merita alcuni esempi a sostegno: 300 prova che il suo autore è
un grande narratore sia nella scelta della materia, sia nella scelta di come
modificarla ed ordinarla, sia nella scelta di testi e disegni, nel loro ritmo,
nel loro stile; e infine nella rappresentazione dei suoi eroi.
Della materia
abbiamo già detto: Miller ha scelto un paradigma del fumetto di guerra per
narrare una storia di guerra paradigmatica.
E per un paese
dove gli Spartani sono tutt’al più associati all’Iliade [4], ovvero a concetti
che con la Sparta classica avevano ben poco a che fare, questo non è poco.
La scelta di
come modificare tale materia per i propri fini narrativi è già stata esaminata,
qui valgano alcuni esempi che mostrano come la dispositio del materiale sia efficace.
Ad esempio
l’inizio: è ottima la scelta di partire con la marcia dei trecento, perché gli
antefatti sono troppo “personali”, troppo legati all’individuo Leonida per non
creare nel lettore un focus sul re, che traviserebbe l’essenza della vicenda
narrata.
Nella marcia
l’intervento del re in soccorso di Stelios/Stumblios mostra sì la personalità
di Leonida, ma anche il carattere di tutti gli Spartani.
In seguito possiamo
apprezzare le variazioni di velocità e di ritmo perfettamente aderenti al tipo
di scena, la scelta del finale che riprende l’inizio in una composizione quasi
ciclica, il perfetto bilanciarsi tra disegno e testo.
E a proposito di
bilanciamento, ecco l’alternanza tra i momenti personali di Leonida e le scene
di gruppo, tra momenti collettivi e momenti di scene “a due” che invece
indicano momenti di svolta in ogni numero: nel primo c’è lo scontro tra Leonida
e il lupo; nel secondo il duetto Leonida/regina, basato su ciò che ciascuno sa
e che non ha bisogno di dire; nel terzo il confronto Leonida/Efialte; nel
quarto l’incontro tra Leonida e Serse; nel quinto ve ne sono due: il colloquio
Serse/Efialte e quello Leonida/Dilios.
Della scelta di
testi e disegni, del loro ritmo e del loro stile abbiamo già accennato. Il
disegno è funzionale alla narrazione: Miller si rivela davvero autore completo
quando riesce a far dire al tratto ciò che viene taciuto dal testo, dividendo
ed integrando armoniosamente le informazioni date dai due elementi. Solo per
fare un esempio, nelle scene di combattimento di massa, Miller è ben attento a
mostrare le formazioni disordinate e staccate dei Persiani, i loro soldati che
riempiono gli spazi solo perché sono troppo numerosi per distanziarsi,
contrapposti all'unita e ordinata falange spartana. La differenza tra i due
popoli, tra due modi di pensare e di combattere si mostrano in tavole che non
hanno bisogno di testo.
Viceversa, nelle
tavole iniziali in cui si mostra il lungo cammino degli Spartani verso il campo
di battaglia, testo e disegni seguono strade parallele, raccontandoci l’uno
insieme all’altro la marcia, la destinazione, i sentimenti nascosti che animano
i marciatori.
La disposizione
dei testi ha fini non solo narrativi (ovvero mostrare come si evolve la storia)
ma soprattutto descrittivi della psicologia dei personaggi.
Come abbiamo già
accennato Miller ha ripreso l’impostazione della vita spartana, e ha ideato una
narrazione che si muove tra due fuochi: da una parte il re Leonida, il singolo,
dall’altra il gruppo omogeneo dei trecento Spartiati.
Le didascalie di
tutta la parte della storia narrata “in contemporanea” si dividono tra quelle che
riportano i pensieri dei trecento e quelle pensate da Leonida. A loro volta
quelle pensate dagli Spartiati si dividono tra quelle che hanno come soggetto
“We” (Noi) ad esprimere il pensiero di uno spartano che in realtà sono tutti
gli Spartiati su sé stesso, e quelle con soggetto “He” (Lui), l’unico
identificato, il re come viene visto dai suoi uomini; e parallelamente quelle
pensate da Leonida anche nei flash-back hanno spesso come argomento i trecento
e la Legge, mai sé stesso.
La narrazione è costellata
di flash-back solo nei primi due numeri della serie. Dopo, tutto è immediato,
presente, reale. Perfino il racconto della nascita di Efialte non è affidato al
flash-back ma solo a brevi frasi.
Per due numeri
su cinque Miller ha narrato l’attesa della battaglia, la sua preparazione. Ci
ha mostrato solo una parte degli schieramenti in campo, quella per cui tifare,
dell’altra farà solo accenni. Nei tre numeri successivi c’è solo il presente,
lo scontro, l’inevitabile scivolare della storia verso la sua conclusione. C’è
la disillusione di Leonida nei confronti della speranza di vittoria, poi la sua
illusione, poi la sua comprensione del sacrificio necessario per una vittoria
più grande.
Leonida è
descritto subito come duro, deciso come ogni spartano, implacabilmente teso al
suo obiettivo, rispettare la Legge della patria, non la “legge” con la “l”
minuscola di cui parlano gli efori descritti da Miller.
Rispettare lo
spirito, non la lettera: lottare per la sopravvivenza, perché gli Spartani sono
(per Legge) guerrieri, proprio perché il proprio sistema sopravviva. Sono
guerrieri per tenere sottomessi gli schiavi che lavorano per permettere agli
Spartani di essere guerrieri; sono guerrieri per difendere un presente che non
deve mutare.
Leonida è l'uomo
che paradossalmente si ribella per essere fedele, è un rivoluzionario
conservatore e, coerentemente con sé stesso, agisce senza dubbi, senza
esitazioni: Leonida sa quando si deve partire, sa quando si deve morire. Non si
chiede mai il perché: sa di essere infallibilmente nel giusto.
Leonida è
l'unico spartano ad essere veramente individuato. Come accennato nella mente
collettiva degli Spartiati che fa da narratore nelle didascalie, è il “Lui” (“He”)
apparentemente contrapposto al “Noi” (“We”) formato dal resto della falange. Ma
questa separazione tra capo e esercito è pura convenzione narrativa.
Gli Spartiati
sono tutti uguali. Come detto sopra, i personaggi che vengono “personalizzati”
non sono veri individui ma maschere, esempi. Per il loro carattere basti dire
che il re è uno di loro; un esempio, ma pur sempre uno di loro.
Di contro
abbiamo due personaggi singoli, due persone, due psicologie individuali: Serse
e Efialte.
Di Efialte
abbiamo già detto: è come un amante che scopre che l’oggetto del suo amore lo
respinge, e che allora preferisce distruggere questo oggetto, proprio perché
non riesce a non amarlo.
Miller non ci
dice se Efialte sopravvisse alla battaglia, la sua ultima apparizione lo vede
supplicare Leonida di cedere, di essere come lui, e rendersi conto che Leonida
era davvero un’idea pura, un ideale coerente fino alla fine, un sogno che il
triste Efialte non potrà mai vedere concretizzato.
Abbiamo già
accennato all’aspetto grafico di Serse: è un bimbo troppo cresciuto ed in
apparenza innocente. Il Re dei Re sa avere il ghigno crudele in battaglia e quando
occorre sa essere uno ieratico incantatore: è abile nel toccare tutti i tasti
che potrebbero piegare la determinazione di Leonida, fingendo di fare discorsi
ragionevoli. Prima minaccia l’incolumità fisica dello Spartano, poi passa alla
minaccia della patria, delle donne; infine cerca di corromperlo con l’oro e con
la promessa del potere.
Ad un Efialte
disperato e rabbioso, propone tutto (ma solo beni materiali), avvolgendolo in
una danza di bellezze astratte ed eteree, eppure sensuali e profondamente
carnali simili in un certo senso all’Oracolo controllato dagli Efori; la scena
è quella di una sorta di incantesimo magico, come detto prima abbiamo delle
nuove Salomè che spingono l’uomo al peccato.
Il modello di
Serse sembra proprio quello del Satana dei Vangeli che tenta Cristo, offrendo
salvezza e beni materiali in cambio della semplice adorazione. E il peccato più
grande di Serse [5] è l’orgoglio, l’Hybris
di voler assumere il ruolo di Dio e rovesciare la creazione a suo capriccio,
trasformando il mare in terra e la terra in mare.
Serse usa la
potenza di un continente, ma il suo vero potere è la tentazione. Leonida
vincerà la tentazione e si sacrificherà cristologicamente per il bene dei suoi,
Efialte cederà e sarà dannato come Giuda.
300: STORIA GRECA IN SALSA AMERICANA?
Abbiamo accennato all’ “americanità latente” e
al tentativo di avvicinarsi alla classicità da
parte di un americano.
Dopo un primo
sguardo all’opera completa, l’amico Paciolus anni fa fece una considerazione che
inizialmente mi lasciò perplesso: in 300
Miller non sarebbe riuscito a liberarsi completamente del retaggio del fumetto
americano che, in quasi tutte le sue manifestazioni (eccetto forse il fumetto
comico) è sostanzialmente un fumetto supereroistico con ambientazioni variate.
A sostegno di questa sua
affermazione portava una (doppia) tavola in cui i giovani Spartiati, in una
pausa della lunga marcia che li conduceva alle Termopili, proseguivano il loro
duro addestramento con prove di resistenza, ovvero strisciando pancia a terra
con il solo ausilio delle mani e con sulle spalle il peso di un guerriero
anziano. Insomma: un esercizio da supereroi, visto che nessun uomo normale, per
quanto allenato, dopo aver marciato sotto il sole per otto/dieci ore per una
decina di giorni, sarebbe in grado di sostenere una fatica simile.
Contro questa opinione, era comparsa una lettera di
Mike “Hellboy” Mignola (proprio lui! Il grande autore!) relativa proprio
all’argomento; il buon Mike affermava categoricamente che “they aren’t
superheroes really”! [6]
Ma Mignola è americano…
Pur tenendo conto dell’ironia
tipica del Paciolus il problema è da porsi: al di là di concetti
filosofico/sociali cos’è un supereroe, se non un uomo che va oltre i propri
limiti per un ideale astratto di giustizia o di ricerca della stessa?
Chi è, se non un uomo che vuole
un mondo migliore e che si distingue dalla massa perché lui può effettivamente
renderlo un posto migliore?
Leonida ed i suoi 300 fanno, in realtà, proprio questo:
lottare, soffrire, morire perché gli altri vivano, perché il loro mondo sia
liberato dal Male, ben oltre la sopportazione e la tenacia di uomini normali.
Il sacrificio degli
Spartiati è decisamente meno banale e più vero di una qualsiasi morte per
salvare il mondo di un X-mutante, ma Miller (unica pecca nel suo splendido
testo) non riesce a non renderlo retorico: Leonida manda Dilios ad annunciare
alla Grecia il sacrificio, e questi nelle tavole finali, accende gli animi
degli Spartani e di tutti i greci ricordando il sacrificio delle Termopili;
Dilios capisce come Leonida avesse previsto che il sangue dei trecento avrebbe
unito l’intera Grecia nella lotta contro l’invasore.
Ma Miller va troppo
oltre quando parla di sacrificio fatto dagli Spartiati volontariamente per
TUTTA la Grecia; esagera quando dice che ciò provocò l’unità, il superamento delle
discordie, che con la vittoria dei Greci uniti
“we rescue a WORLD from the old, dark, stupid ways… and we usher in a future that is surely brighter than any we can imagine”(“noi liberiamo un mondo dalle vecchie, oscure, stupide vie… e noi inauguriamo un futuro che è sicuramente più luminoso di quanto ciascuno di noi possa immaginare”)
Frase che riprende
quella detta prima di morire da Leonida, annunciando ai suoi che
“a new age is begun. An age of great deeds. An age of reason. An age of justice. An age of law”(“è iniziata una nuova era. Un’era di grandi atti. Un’era di ragione. Un’era di giustizia. Un’era di legge”).
Nonostante
l’abilità e la “laicità” (passatemi il termine) di Miller, alcuni valori,
alcune idee, alcuni dogmi propri dell’americanità sono troppo radicati per non
emergere anche in contesti che nulla hanno a vedere con essi; troppo profonda è
la pretesa dell’universalità dell’idea-America che permea la politica mondiale
statunitense e molta della sua cultura.
A meno che anche
questo non faccia parte del gioco di Miller: tutte le guerre appaiono
retoricamente giuste e nobili per chi le combatte… ma qui si dovrebbe scendere
nel dettaglio delle polemiche seguite a Holy
Terror, e non è questa la sede.
La realtà è che i
Trecento morirono soprattutto per le “sacre leggi di Sparta”, più che per la
Grecia intera.
Che erano
schiavisti (e contenti).
Che erano uno stato
totalitario, anche se Leonida che dice a Stelios “la democrazia lasciala agli
Ateniesi” può far supporre che Miller lo sapesse bene…
Che la fine delle
guerre Persiane segnò l'inizio di nuove e più terribili guerre tra le città
greche, fatte per il potere puro e semplice e non per difesa.
Che presto sia
Sparta che Atene cercarono l’alleanza proprio dei Persiani per dominare la
Grecia eliminando i rivali.
Che sarebbe giunto
un momento in cui gli Spartani sarebbero divenuti i custodi dell’autorità
persiana in Grecia.
Miller casca nel
finale perché ha pensato che Sparta, Grecia, fosse troppo simile (perdonatemi
la battuta) a Sparta, Illinois. [7]
Ma al di là di
quanto si può dire, i trecento caddero alle Porte Calde nel 480 a.C. E caddero
da eroi, e il loro sacrificio non fu vano.
A ragione o a torto
essi sono il simbolo di quanto un uomo sia disposto a dare per difendere le sue
idee.
O tu che passi, vai a SpartaE annuncia che qui siamo cadutiPer difendere le sue sacre Leggi.(Simonide, Epitaffio sul sacrario degli Spartani caduti alle Termopili)
[1] il western classico
statunitense mi sembra il genere cinematografico che più di tutti ha
rappresentato il tentativo di un’epica moderna, ma discutere questa
affermazione richiederebbe più spazio di quanto si possa dedicare.
[2] è appena il caso di (e forse
è superfluo) ricordare che nella realtà le Termopili sono lontane dal Capo
Artemisio dove si svolse la battaglia navale.
[3]i comics americani, specie
quelli supereoristici, hanno quasi una ossessione per il colore; il bianco e
nero così tradizionale per noi italiani, per loro è spesso riservato a progetti
speciali che si devono distinguere (vedi i magazine fantasy come la Savage Sword of Conan) o a fumetti “alternativi”,
dall’underground, a Maus, ad Eisner a
Love and Rockets.
[4] si veda la lettera di Mimi
Carrol alla fine del secondo albo dell’edizione originale americana in albi
separati.
[5] tale veniva concepito anche
dal tragediografo greco Eschilo nella tragedia I Persiani ispirato proprio alla sua spedizione.
[6] sul numero due di 300, prima edizione USA.
[7] gran parte dei fumetti supereroistici
degli anni ’80 erano stati stampati in quella graziosa località; lì inoltre
furono girati i film della serie dell’Ispettore Tibbs e, molto americanamente,
vi ha sede il World Shooting and
Recreational Complex.
L’immagine iniziale è copyright di Luca Albergoni. Né quella né le altre
immagini (e citazioni) mi appartengono, e sono qui unicamente a corredo dell’analisi.
Questo blog non ha fini di lucro.
Quotone totale sull'ottima sintesi analitica!
RispondiElimina(Sogno da tempo un mash up con Rock Hudson che dice a Sidney Poitier, con la voce di Butler, THIS. IS. SPARTA.! E lui basito e sudato!) LOL
uahahahahahahahah!
RispondiEliminaEvviva il mash up!
:-)