giovedì 16 gennaio 2014

300 - Il fumetto di guerra secondo Frank Miller parte 2


Qui la prima parte di questo articolo; ricordo che è la versione riveduta, aggiornata e corretta di un articolo uscito originariamente sulla fanzine “Clark’s Bar” oltre dieci anni fa.

 300: il fumetto di guerra

visto da Frank Miller

Parte II


IL TRATTO ED I COLORI

E’ un Miller sempre più “toppiano” quello che si fa apprezzare in 300: la tavola singola è divenuta una gabbia da sfondare, da aggregare alla tavola successiva, da variare; i neri invadono continuamente questo nuovo spazio, dando ancora più essenzialità al tratto, ed insieme miscelandosi con i colori di Linn Varley.
Dagli sperimentalismi della serie regolare di Daredevil (in cui era già notevole l’influsso del fumetto giapponese), Miller ha compiuto passi in avanti, che lo hanno portato a violare alcune regole più o meno fisse del comic book tradizionale.
Prima le cosiddette splash pages (le tavole riempite da una sola illustrazione) erano un’eccezione, ma Miller proprio con Ronin e Dark Knight prima, e con Sin City poi aveva imparato a incrementarle per fini espressivi: esse sono divenute quasi uno stacco della narrazione, un modo per rallentare il ritmo con un quadro dai mille particolari, a segnalare un momento importante, forse decisivo, con didascalie scarne, essenziali.
In 300 questo processo giunge alla sua estremizzazione: l’unità di base non è più la tavola, ma la doppia tavola. Tutti gli albi sono impostati in modo da partire e concludersi con due tavole affrontate e sempre, in tutte le doppie pagine di tutti i numeri delle miniserie, la vignetta principale (spesso l’unica) si estende sulle due tavole affrontate, seppur a volte prendendo solo pochi millimetri nell’altra tavola. E sono proprio questi pochi millimetri, a volte inutili ai fini del disegno, a dirci che tutto questo è fortemente voluto dall'autore.

C’è una esigenza di spazio, in questa miniserie, l’esigenza quasi di scolpire in una materia dura e non di tracciare linee sulla carta: si sente l’esigenza di un disegno epico che si adatti ad una storia epica.
E l’epica (sia quella antica che la moderna) ha bisogno di ritmi lenti, di grandi spazi, di paesaggi profondi: dall’ampia pianura dello Scamandro in cui Achille uccide tanti nemici da rendere le acque del fiume color sangue, alla Monument Valley in cui corre la diligenza di Ombre Rosse [1].


Miller adegua il suo strumento di rappresentazione, la sua macchina da presa, alla materia trattata, e l’effetto è pienamente riuscito. Il tramonto con gli Spartani in marcia che apre il primo numero; le Termopili, uno squarcio rosso tra i due enormi blocchi montagnosi, neri e minacciosi; la tempesta che spazza la flotta persiana [2]; la battaglia mostrata “in soggettiva” dagli occhi di Leonida da sotto il suo elmo corinzio che fa vedere solo avanti: sono quadri indimenticabili, scene degne, se la storia fosse stata narrata dal cinema, di un grande regista e di un grande direttore della fotografia.

E il direttore della fotografia di questo film è la splendida colorista Linn Varley, compagna nella vita di Miller e suo indispensabile supporto cromatico nei capolavori precedenti (vedi Dark Knight). In precedenza Miller si era orientato nella direzione della sperimentazione del bianco e nero in tante storie di Sin City [3]; l’influsso degli europei tra i quali proprio Toppi, ha portato all’uso dei neri di cui abbiamo già accennato e che si concretizza nelle molte shilouettes, nei neri pieni che invadono le vignette, nell’alternanza tra neri e non neri: probabilmente per lo stile grafico di Miller 300 sarebbe stato efficace anche senza il colore.


Eppure l’opera della Varley non è affatto anonima o superflua: i colori sono sfumati e mescolati tra loro, e sempre spicca il rosso pieno delle vesti spartane, la loro uniforme.
L’abilità più grande è probabilmente raggiunta nei cieli che sovrastano le varie fasi e che sottolineano e suggeriscono i vari momenti: dal cupo tramonto sotto il quale sui svolge l’ultima marcia dei 300 (presagio della fine che li attende) al cielo innevato dello scontro tra Leonida ed il lupo (indizio dell’attimo senza tempo e dell’isolamento dal resto del mondo che caratterizzano quello scontro); dalla luce sfumata della notte di tregenda in cui si svolge l’incontro con gli efori (macbethiana notte di magia, di profezia, di tradimento); alla splendida luce cupa e fioca che sovrasta le Termopili all’arrivo dei greci  e che combinata con il nero dei monti mostra il muro che deve proteggere la Grecia; dalla tempesta che distrugge le navi persiane, l’ira degli dei per la presunzione del re, quasi il kami-kaze, il vento divino che nella tradizione giapponese salvò il paese dalle orde mongole di Kubilay Khan; al cielo nero e schizzato di sangue della prima notte di combattimento; dall’alternarsi di arancione e giallo-oro dei movimenti delle donne di Serse che seducono Efialte, con le Persiane sembrano quasi delle nuove Salomè o delle invasate ad un sabba; alle bianche strisce delle scene del massacro finale; e infine l’alba della carica degli Spartani che chiude la miniserie.
Tutti gli episodi salienti hanno un loro colore, un colore diverso, il colore adatto. Ottimi coloristi, Mr Miller ed (ex)signora!



LA TECNICA NARRATIVA

Frank Miller è un grande narratore, padrone delle possibilità offerte dal medium fumetto.
Un’affermazione così categorica merita alcuni esempi a sostegno: 300 prova che il suo autore è un grande narratore sia nella scelta della materia, sia nella scelta di come modificarla ed ordinarla, sia nella scelta di testi e disegni, nel loro ritmo, nel loro stile; e infine nella rappresentazione dei suoi eroi.

Della materia abbiamo già detto: Miller ha scelto un paradigma del fumetto di guerra per narrare una storia di guerra paradigmatica.
E per un paese dove gli Spartani sono tutt’al più associati all’Iliade [4], ovvero a concetti che con la Sparta classica avevano ben poco a che fare, questo non è poco.

La scelta di come modificare tale materia per i propri fini narrativi è già stata esaminata, qui valgano alcuni esempi che mostrano come la dispositio del materiale sia efficace.
Ad esempio l’inizio: è ottima la scelta di partire con la marcia dei trecento, perché gli antefatti sono troppo “personali”, troppo legati all’individuo Leonida per non creare nel lettore un focus sul re, che traviserebbe l’essenza della vicenda narrata.
Nella marcia l’intervento del re in soccorso di Stelios/Stumblios mostra sì la personalità di Leonida, ma anche il carattere di tutti gli Spartani.
In seguito possiamo apprezzare le variazioni di velocità e di ritmo perfettamente aderenti al tipo di scena, la scelta del finale che riprende l’inizio in una composizione quasi ciclica, il perfetto bilanciarsi tra disegno e testo.
E a proposito di bilanciamento, ecco l’alternanza tra i momenti personali di Leonida e le scene di gruppo, tra momenti collettivi e momenti di scene “a due” che invece indicano momenti di svolta in ogni numero: nel primo c’è lo scontro tra Leonida e il lupo; nel secondo il duetto Leonida/regina, basato su ciò che ciascuno sa e che non ha bisogno di dire; nel terzo il confronto Leonida/Efialte; nel quarto l’incontro tra Leonida e Serse; nel quinto ve ne sono due: il colloquio Serse/Efialte e quello Leonida/Dilios.

Della scelta di testi e disegni, del loro ritmo e del loro stile abbiamo già accennato. Il disegno è funzionale alla narrazione: Miller si rivela davvero autore completo quando riesce a far dire al tratto ciò che viene taciuto dal testo, dividendo ed integrando armoniosamente le informazioni date dai due elementi. Solo per fare un esempio, nelle scene di combattimento di massa, Miller è ben attento a mostrare le formazioni disordinate e staccate dei Persiani, i loro soldati che riempiono gli spazi solo perché sono troppo numerosi per distanziarsi, contrapposti all'unita e ordinata falange spartana. La differenza tra i due popoli, tra due modi di pensare e di combattere si mostrano in tavole che non hanno bisogno di testo.
Viceversa, nelle tavole iniziali in cui si mostra il lungo cammino degli Spartani verso il campo di battaglia, testo e disegni seguono strade parallele, raccontandoci l’uno insieme all’altro la marcia, la destinazione, i sentimenti nascosti che animano i marciatori.

La disposizione dei testi ha fini non solo narrativi (ovvero mostrare come si evolve la storia) ma soprattutto descrittivi della psicologia dei personaggi.
Come abbiamo già accennato Miller ha ripreso l’impostazione della vita spartana, e ha ideato una narrazione che si muove tra due fuochi: da una parte il re Leonida, il singolo, dall’altra il gruppo omogeneo dei trecento Spartiati.
Le didascalie di tutta la parte della storia narrata “in contemporanea” si dividono tra quelle che riportano i pensieri dei trecento e quelle pensate da Leonida. A loro volta quelle pensate dagli Spartiati si dividono tra quelle che hanno come soggetto “We” (Noi) ad esprimere il pensiero di uno spartano che in realtà sono tutti gli Spartiati su sé stesso, e quelle con soggetto “He” (Lui), l’unico identificato, il re come viene visto dai suoi uomini; e parallelamente quelle pensate da Leonida anche nei flash-back hanno spesso come argomento i trecento e la Legge, mai sé stesso.


La narrazione è costellata di flash-back solo nei primi due numeri della serie. Dopo, tutto è immediato, presente, reale. Perfino il racconto della nascita di Efialte non è affidato al flash-back ma solo a brevi frasi.
Per due numeri su cinque Miller ha narrato l’attesa della battaglia, la sua preparazione. Ci ha mostrato solo una parte degli schieramenti in campo, quella per cui tifare, dell’altra farà solo accenni. Nei tre numeri successivi c’è solo il presente, lo scontro, l’inevitabile scivolare della storia verso la sua conclusione. C’è la disillusione di Leonida nei confronti della speranza di vittoria, poi la sua illusione, poi la sua comprensione del sacrificio necessario per una vittoria più grande.

Leonida è descritto subito come duro, deciso come ogni spartano, implacabilmente teso al suo obiettivo, rispettare la Legge della patria, non la “legge” con la “l” minuscola di cui parlano gli efori descritti da Miller.
Rispettare lo spirito, non la lettera: lottare per la sopravvivenza, perché gli Spartani sono (per Legge) guerrieri, proprio perché il proprio sistema sopravviva. Sono guerrieri per tenere sottomessi gli schiavi che lavorano per permettere agli Spartani di essere guerrieri; sono guerrieri per difendere un presente che non deve mutare.
Leonida è l'uomo che paradossalmente si ribella per essere fedele, è un rivoluzionario conservatore e, coerentemente con sé stesso, agisce senza dubbi, senza esitazioni: Leonida sa quando si deve partire, sa quando si deve morire. Non si chiede mai il perché: sa di essere infallibilmente nel giusto.
Leonida è l'unico spartano ad essere veramente individuato. Come accennato nella mente collettiva degli Spartiati che fa da narratore nelle didascalie, è il “Lui” (“He”) apparentemente contrapposto al “Noi” (“We”) formato dal resto della falange. Ma questa separazione tra capo e esercito è pura convenzione narrativa.
Gli Spartiati sono tutti uguali. Come detto sopra, i personaggi che vengono “personalizzati” non sono veri individui ma maschere, esempi. Per il loro carattere basti dire che il re è uno di loro; un esempio, ma pur sempre uno di loro.

Di contro abbiamo due personaggi singoli, due persone, due psicologie individuali: Serse e Efialte.
Di Efialte abbiamo già detto: è come un amante che scopre che l’oggetto del suo amore lo respinge, e che allora preferisce distruggere questo oggetto, proprio perché non riesce a non amarlo.
Miller non ci dice se Efialte sopravvisse alla battaglia, la sua ultima apparizione lo vede supplicare Leonida di cedere, di essere come lui, e rendersi conto che Leonida era davvero un’idea pura, un ideale coerente fino alla fine, un sogno che il triste Efialte non potrà mai vedere concretizzato.

Abbiamo già accennato all’aspetto grafico di Serse: è un bimbo troppo cresciuto ed in apparenza innocente. Il Re dei Re sa avere il ghigno crudele in battaglia e quando occorre sa essere uno ieratico incantatore: è abile nel toccare tutti i tasti che potrebbero piegare la determinazione di Leonida, fingendo di fare discorsi ragionevoli. Prima minaccia l’incolumità fisica dello Spartano, poi passa alla minaccia della patria, delle donne; infine cerca di corromperlo con l’oro e con la promessa del potere.
Ad un Efialte disperato e rabbioso, propone tutto (ma solo beni materiali), avvolgendolo in una danza di bellezze astratte ed eteree, eppure sensuali e profondamente carnali simili in un certo senso all’Oracolo controllato dagli Efori; la scena è quella di una sorta di incantesimo magico, come detto prima abbiamo delle nuove Salomè che spingono l’uomo al peccato.
Il modello di Serse sembra proprio quello del Satana dei Vangeli che tenta Cristo, offrendo salvezza e beni materiali in cambio della semplice adorazione. E il peccato più grande di Serse [5] è l’orgoglio, l’Hybris di voler assumere il ruolo di Dio e rovesciare la creazione a suo capriccio, trasformando il mare in terra e la terra in mare.
Serse usa la potenza di un continente, ma il suo vero potere è la tentazione. Leonida vincerà la tentazione e si sacrificherà cristologicamente per il bene dei suoi, Efialte cederà e sarà dannato come Giuda.
 

300: STORIA GRECA IN SALSA AMERICANA?

Abbiamo accennato all’ “americanità latente” e al tentativo di avvicinarsi alla classicità da  parte di un americano.

Dopo un primo sguardo all’opera completa, l’amico Paciolus anni fa fece una considerazione che inizialmente mi lasciò perplesso: in 300 Miller non sarebbe riuscito a liberarsi completamente del retaggio del fumetto americano che, in quasi tutte le sue manifestazioni (eccetto forse il fumetto comico) è sostanzialmente un fumetto supereroistico con ambientazioni variate.

A sostegno di questa sua affermazione portava una (doppia) tavola in cui i giovani Spartiati, in una pausa della lunga marcia che li conduceva alle Termopili, proseguivano il loro duro addestramento con prove di resistenza, ovvero strisciando pancia a terra con il solo ausilio delle mani e con sulle spalle il peso di un guerriero anziano. Insomma: un esercizio da supereroi, visto che nessun uomo normale, per quanto allenato, dopo aver marciato sotto il sole per otto/dieci ore per una decina di giorni, sarebbe in grado di sostenere una fatica simile.


Contro questa opinione, era comparsa una lettera di Mike “Hellboy” Mignola (proprio lui! Il grande autore!) relativa proprio all’argomento; il buon Mike affermava categoricamente che “they aren’t superheroes really”! [6]

Ma Mignola è americano…



Pur tenendo conto dell’ironia tipica del Paciolus il problema è da porsi: al di là di concetti filosofico/sociali cos’è un supereroe, se non un uomo che va oltre i propri limiti per un ideale astratto di giustizia o di ricerca della stessa?

Chi è, se non un uomo che vuole un mondo migliore e che si distingue dalla massa perché lui può effettivamente renderlo un posto migliore?

Leonida ed i suoi 300 fanno, in realtà, proprio questo: lottare, soffrire, morire perché gli altri vivano, perché il loro mondo sia liberato dal Male, ben oltre la sopportazione e la tenacia di uomini normali.

Il sacrificio degli Spartiati è decisamente meno banale e più vero di una qualsiasi morte per salvare il mondo di un X-mutante, ma Miller (unica pecca nel suo splendido testo) non riesce a non renderlo retorico: Leonida manda Dilios ad annunciare alla Grecia il sacrificio, e questi nelle tavole finali, accende gli animi degli Spartani e di tutti i greci ricordando il sacrificio delle Termopili; Dilios capisce come Leonida avesse previsto che il sangue dei trecento avrebbe unito l’intera Grecia nella lotta contro l’invasore.

Ma Miller va troppo oltre quando parla di sacrificio fatto dagli Spartiati volontariamente per TUTTA la Grecia; esagera quando dice che ciò provocò l’unità, il superamento delle discordie, che con la vittoria dei Greci uniti

“we rescue a WORLD from the old, dark, stupid ways… and we usher in a future that is surely brighter than any we can imagine”
(“noi liberiamo un mondo dalle vecchie, oscure, stupide vie… e noi inauguriamo un futuro che è sicuramente più luminoso di quanto ciascuno di noi possa immaginare”)

Frase che riprende quella detta prima di morire da Leonida, annunciando ai suoi che

“a new age is begun. An age of great deeds. An age of reason. An age of justice. An age of law”
(“è iniziata una nuova era. Un’era di grandi atti. Un’era di ragione. Un’era di giustizia. Un’era di legge”).
Nonostante l’abilità e la “laicità” (passatemi il termine) di Miller, alcuni valori, alcune idee, alcuni dogmi propri dell’americanità sono troppo radicati per non emergere anche in contesti che nulla hanno a vedere con essi; troppo profonda è la pretesa dell’universalità dell’idea-America che permea la politica mondiale statunitense e molta della sua cultura.

A meno che anche questo non faccia parte del gioco di Miller: tutte le guerre appaiono retoricamente giuste e nobili per chi le combatte… ma qui si dovrebbe scendere nel dettaglio delle polemiche seguite a Holy Terror, e non è questa la sede.



La realtà è che i Trecento morirono soprattutto per le “sacre leggi di Sparta”, più che per la Grecia intera.
Che erano schiavisti (e contenti).
Che erano uno stato totalitario, anche se Leonida che dice a Stelios “la democrazia lasciala agli Ateniesi” può far supporre che Miller lo sapesse bene…
Che la fine delle guerre Persiane segnò l'inizio di nuove e più terribili guerre tra le città greche, fatte per il potere puro e semplice e non per difesa.
Che presto sia Sparta che Atene cercarono l’alleanza proprio dei Persiani per dominare la Grecia eliminando i rivali.
Che sarebbe giunto un momento in cui gli Spartani sarebbero divenuti i custodi dell’autorità persiana in Grecia.



Miller casca nel finale perché ha pensato che Sparta, Grecia, fosse troppo simile (perdonatemi la battuta) a Sparta, Illinois. [7]



Ma al di là di quanto si può dire, i trecento caddero alle Porte Calde nel 480 a.C. E caddero da eroi, e il loro sacrificio non fu vano.

A ragione o a torto essi sono il simbolo di quanto un uomo sia disposto a dare per difendere le sue idee.

O tu che passi, vai a Sparta
E annuncia che qui siamo caduti
Per difendere le sue sacre Leggi.
(Simonide, Epitaffio sul sacrario degli Spartani caduti alle Termopili)




[1] il western classico statunitense mi sembra il genere cinematografico che più di tutti ha rappresentato il tentativo di un’epica moderna, ma discutere questa affermazione richiederebbe più spazio di quanto si possa dedicare.

[2] è appena il caso di (e forse è superfluo) ricordare che nella realtà le Termopili sono lontane dal Capo Artemisio dove si svolse la battaglia navale.

[3]i comics americani, specie quelli supereoristici, hanno quasi una ossessione per il colore; il bianco e nero così tradizionale per noi italiani, per loro è spesso riservato a progetti speciali che si devono distinguere (vedi i magazine fantasy come la Savage Sword of Conan) o a fumetti “alternativi”, dall’underground, a Maus, ad Eisner a Love and Rockets.

[4] si veda la lettera di Mimi Carrol alla fine del secondo albo dell’edizione originale americana in albi separati.

[5] tale veniva concepito anche dal tragediografo greco Eschilo nella tragedia I Persiani ispirato proprio alla sua spedizione.

[6] sul numero due di 300, prima edizione USA.

[7] gran parte dei fumetti supereroistici degli anni ’80 erano stati stampati in quella graziosa località; lì inoltre furono girati i film della serie dell’Ispettore Tibbs e, molto americanamente, vi ha sede il World Shooting and Recreational Complex.


L’immagine iniziale è copyright di Luca Albergoni. Né quella né le altre immagini (e citazioni) mi appartengono, e sono qui unicamente a corredo dell’analisi. Questo blog non ha fini di lucro.