sabato 30 giugno 2012

Tre modi di vedere l'antisemitismo nei fumetti americani – 3. The Uncanny X-Men, o l'antisemitismo come stilema letterario (meno 2012.3 al Big.T)


Ecco l'ultimo dei tre articoli sull'antisemitismo destinati a un numero di Clark's Bar del 2000... che non uscì mai. Riveduto, in parte corretto, ma non ampliato. QUI abbiamo introdotto il discorso, QUI abbiamo parlato dell'antisemitismo così come emerge dalla lettura di Maus, e infine QUI abbiamo visto alcuni spunti sull'argomento che si possono trarre da Verso la Tempesta di Eisner.



L'idea dei mutanti, gli Homines Superiores, perseguitati perché 'diversi' dagli Homines Sapientes era già nella prima incarnazione degli X-Men: prima Lee e Kirby, e poi soprattutto Roy Thomas, ci avevano parlato della paura del diverso che si nasconde nel cuore dell'americano medio.
Quando le redini della saga dei nuovi X-Men furono prese dal britannico Chris Claremont (a quanto pare non estraneo all'ideazione della nuova formazione di mutanti), la serie riprese ed ampliò queste tematiche: negli anni '80 il razzismo, l'odio dell'uomo “normale” contro il diverso, divenne il tema dominante della serie.
Il rapporto con i mutanti, con la 'nuova razza', divenne una metafora del fragile equilibrio in cui si trovava all'epoca (si trova ancora oggi?) la composita società americana. Una società piena di paura, che non esita a rinunciare agli irrinunciabili diritti per colpire addirittura altri cittadini americani, qualora questi non siano omologati in qualche modo (un superpotere, in questo caso) alla maggioranza.

La nuova formazione di X-Men presentava alcuni personaggi che enfatizzavano questa differenza. Nella nuova squadra Ciclope e Banshee (e soprattutto Marvel Girl nella sua trasformazione in Fenice), erano 'banalmente' marchiati dal “potere pericoloso e distruttivo”, da tenere costantemente sotto controllo, come nell'idea della serie originaria.
Gli altri mutanti aggiungevano ai loro poteri una 'stranezza' fisica o etnica, e rispondevano al tipo del concittadino 'diverso', con cui il cittadino WASP (Bianco, di origine anglosassone, protestante... e culturalmente maschilista) si trova ad avere a che fare: troviamo la donna emancipata, per di più nera (Tempesta); il freak (Nightcrawler); lo psicopatico (Wolverine); il nativo americano (Thunderbird); il comunista (Colosso); l'orientale (Sunfire).
Dopo i primi cicli di storie arriverà nel gruppo anche un'ebrea, Shadowcat.

Tutta la saga di Claremont fino al principio degli anni '90 è, come detto, impregnata da questo ideale costantemente frustrato dell'integrazione.
Lo scrittore è bravo a giocare sul sottile senso di colpa che attraversa l'americano medio, che si scopre lacerato tra due diverse idealità che sono sottese all'idea di America: da un lato c'è l'esigenza di omologazione, di meltin'pot tra le diverse componenti; dall'altra la tradizionale e culturalmente radicata idea di America come difesa del diritto alla differenza.
In fondo l'idea 'nazional-popolare' di America vede nell'Europa la terra delle persecuzioni e della povertà; dai Padri Pellegrini in poi, i diseredati potevano fuggire in America proprio per proteggere la propria libertà di essere 'diversi'.

Claremont dice continuamente ai suoi lettori che il nemico più temibile non è il supercriminale, visibile e palese, ma è la gente comune (il lettore stesso, se vogliamo) che teme il diverso anche senza rendersene conto; che l'uomo è naturalmente cattivo ed egoista nei confronti degli altri uomini e che quindi gli eroi sono quelli che hanno un sogno di integrazione ed armonia; che basta poco perché un onesto americano timorato di Dio crei campi di concentramento e robot potentissimi per sterminare il proprio vicino di casa solo perché questi é, appunto, un diverso.

Solo nel 1988, durante la seconda parte della sua lunga cavalcata alla guida delle testate mutanti, Claremont ideerà l'africana Genosha, la ricca ed evoluta terra in cui i mutanti vengono non sterminati ma sfruttati e trattati come subumani, sul modello del Sudafrica dell'Apartheid.
Nei primi anni '80, invece, la metafora deve essere più mediaticamente chiara e semplificata: il nazismo e le sue persecuzioni contro gli ebrei, per la loro vicinanza cronologica e psicologica, forniscono quasi naturalmente il modello per il futuro dei mutanti. Qui il 'diverso' non è da sfruttare, ma da eliminare.
Così nella saga dei Giorni di un futuro passato (Uncanny X-Men nn. 141-142) le modalità che portano alla caduta dei mutanti seguono quasi passo per passo la strategia antisemita della Germania Hitleriana: propaganda elettorale, paura del 'nemico interno', una democratica presa di potere, una persecuzione ordinata per legge, campi di concentramento, macchine per uccidere.

Eppure questa metafora non trova un legame con un personaggio specifico.

Dell'ebraismo di Kitty Pryde, infatti, sappiamo ben poco: il cognome non è tipicamente istraelita, solo dopo anni si esplicita la sua fede, intuibile solo da una catenina con la stella di David che porta al collo. Ed in effetti non tanto la religione rende Kitty 'diversa' e destinata al campo di concentramento, quanto il suo essere una mutante: la sua fede non determina la sua psicologia, né è il motore principale di una storia.


Differente è il caso del 'nemico' per eccellenza degli X-Men, Magneto.
Vari indizi portano a credere che anche il Signore del Magnetismo sia ebreo, benché in questa fase della narrazione di Claremont il fatto non sia mai affermato esplicitamente. Il Magnus di Claremont oscilla continuamente tra i 'buoni' ed i 'cattivi' e, forse per ragioni di politically correct, in ambito supereroistico non esistono ebrei puramente 'malvagi'.
Inoltre nel fumetto supereroistico degli anni '80 non si trova più il villain divenuto tale per pura malvagità... per lo meno tra i supernemici più importanti!
Così la volontà di dominio e di sopraffazione di Magneto devono trovare una ragione di nascita.

La psicologia di questo supercriminale viene approfondita proprio narrando i suoi trascorsi: scopriamo un suo soggiorno in Israele poco dopo la guerra al fianco di un giovane Charles Xàvier (Uncanny X-Men n. 161) e poi la sua prigionia ad Auschwitz (Uncanny X-Men n. 199). Tutto nell'ambito del tentativo di scoprire perché Magneto è divenuto tale.
Da ambizioso, classico malvagio (nella versione Lee-Kirby vuol solo dominare la Terra grazie ai suoi poteri) Magnus diventa un tormentato idealista: davanti a un tribunale internazionale, alla domanda “Lei persegue ancora la dominazione del mondo?”, il Magneto di Claremont risponde: “Il mio sogno, fin dall'inizio, é stato proteggere e conservare la mia specie, i mutanti. Risparmiare loro il fato sofferto ad Auschwitz dalla mia famiglia”.
Magneto insomma afferma di aver sbagliato non nel valutare i presupposti, ma nei metodi impiegati per fermare le inevitabili conclusioni di questi presupposti: “Io... ho il potere di fare qualcosa. Ho pensato, erroneamente, che quelle nazioni avrebbero compreso più d'ogni altra cosa il loro linguaggio, la violenza. Sfortunatamente la violenza ha generato violenza, innocenti ne hanno pagato il prezzo. Un prezzo che... come ho scoperto più tardi, era altissimo” (Uncanny X-Men n. 200).

Dunque il male non può che generare male, e a causa delle persecuzioni anche gli innocenti, gli idealisti, si trasformano in esseri spietati: in Uncanny X-Men n. 203, Magneto dice “Nei primi tempi della nostra amicizia, Xàvier mi chiese se avrei ucciso Adolf Hitler da neonato... quando era un bambino innocente... per risparmiare al mondo l'orrore. Risposi di sì. Poi mi chiese... avresti ucciso i nonni di Hitler? Risposi di sì nuovamente! Avrei pagato qualunque prezzo, compiuto qualunque sacrificio per estirpare quel male”.

Ma della persecuzione subita ci sono solo accenni, scene divenute ormai tipiche della più convenzionale 'crudeltà nazista': siamo pur sempre nell'ambito di un prodotto destinato al vasto pubblico, acquistato più per svagarsi che per riflettere, e Claremont può permettersi al massimo di accennare, di inserire immagini di una Auschwitz purtroppo divenuta stereotipata, non di approfondire.

Cos'é l'antisemitismo in queste storie? Claremont, ottimo autore del fumetto seriale in cui ha introdotto psicologie e tematiche nuove, non ha, probabilmente, mai avuto intenzione di realizzare opere di profonda riflessione.
L'antisemitismo in Claremont è un espediente narrativo, una lontana idea astratta, da usare come spunto per alcuni stilemi letterari, dalla distopia (l'utopia negativa) alla psicologia tridimensionale dei protagonisti dei comics: è un modello per un futuro da evitare, è l'orrore di un passato da temere, è una dolorosa eredità per un presente su cui riflettere.
E' visto non per la sua realtà, ma perché è ormai un archetipo: ma come tutti gli archetipi rischia di diventare solo un luogo comune.

Immagini tratte dal web, i diritti appartengono ai rispettivi proprietari. Qui sono riportate a semplice corredo dell'analisi.


mercoledì 27 giugno 2012

Tre modi di vedere l'antisemitismo nel fumetto americano 2 - Verso la Tempesta, o l'antisemitismo come categoria universale (meno 19.42 al BigT)


Prosegue la trattazione su tre esempi di antisemitismo raccontati dal fumetto americano di fine anni '90 iniziato QUI, e continuato con l'analisi di Maus QUI.
Un altro articolo destinato originariamente a Clark's Bar (R.I.P.) oltre dieci anni fa, con alcune minime revisioni ed aggiunte per l'occasione. Era un commento che partiva dall'edizione 1998 della Punto Zero. 
È stato il primo volume di Eisner che ho acquistato.



L'antisemitismo della memoria permea anche “Verso la tempesta” di WILL EISNER: la graphic novel racconta la storia dell'infanzia e della giovinezza dell'autore.
E' il racconto del crescere in un mondo dove il razzismo nei confronti degli ebrei è insieme concreto e sfumato, in un'America della tolleranza e delle rivalità di quartiere.
E' la storia di una lotta per negare l'esistenza del razzismo, del tentativo di eliminarlo semplicemente fingendo che non esista.

Giustamente nell'introduzione alla traduzione italiana La Polla nota come “... Verso la tempesta è ben più che la storia di Willie, ed è persino ben più che non la storia campionaria di una minoranza etnica. No, il popolo di cui si racconta qui la storia è quello americano”.
Lontano dagli orrori europei dell'epoca, l'antisemitismo della giovinezza di Eisner è fatto di botte tra ragazzini, di preoccupazione per il trasloco in un quartiere dove “... sono quasi tutti italiani, irlandesi e Dio sa cos'altro”. Si tratta di un mondo dove la violenza fisica della persecuzione antiebraica è qualcosa di lontano, narrato dal padre di Willie a mo' di lontana favola, dove l'episodio più cruento avviene non contro gli ebrei, ma tra un italiano ed un irlandese.
E' un quartiere\mondo, la Dropsie Avenue cantata in tante altre opere del Maestro, dove l'appartenenza al gruppo “degli ebrei” per alcuni è più importante di qualsiasi difficoltà che da questa appartenenza possa derivare (come per la madre di Eisner e sua sorella); per altri, invece, è un ostacolo che si può rimuovere semplicemente con la volontà (vedi il fratello della madre che si converte per stare tranquillo).

Ma Eisner fa intuire che per tutti i gruppi avviene la stessa cosa.
Nella sua introduzione l'autore parla di una New York divisa in enclaves in cui l'estraneo era oggetto di diffidenza: “un ambiente pseudo-balcanico in cui il pregiudizio era endemico. Quando ci trasferimmo in un quartiere italiano tutti avevano pregiudizi verso gli irlandesi. Quando la mia famiglia si trasferì in una strada irlandese gli abitanti del quartiere nutrivano pregiudizi verso gli italiani. E naturalmente nel quartiere tedesco si schernivano italiani e irlandesi”.
L'antisemitismo descritto da Eisner è solo un esempio dell'intolleranza che è dovunque e potenzialmente in chiunque. E' un aspetto del più generale razzismo, non è qualcosa di diverso, di particolare, di esclusivo.

Il razzismo a New York è un pensiero che si insinua costantemente ed emerge in frasi dette senza malizia e 'normali' nella mente di chi parla, ma che invece nascondono la voce del pregiudizio.
E' l'ostilità istintiva che non riesce a reggere ai ragionamenti pacifisti (o almeno diretti ad una convivenza) del padre di Eisner. E' la storia, umoristica nel suo dramma come solo tante storielle Yiddish sanno esserlo, di Abraham Mazzoli, cattolico divenuto ebreo per amore, costretto a tornare cattolico per vivere tranquillo e rifarsi una famiglia...

Il razzismo in America è la storia di un paese dove gli stessi ebrei sono razzisti, addirittura contro i propri correligionari!
Alla madre di Will (ebrea americana) non piacciono gli ebrei tedeschi, fuggiti al nazismo, ma questi stessi ebrei tedeschi, 'rifugiati e bisognosi di aiuto', pensano che il quartiere in cui stanno sia “davvero degradante. Abbiamo dovuto sistemarci tra di loro... gli ebrei dell'est sono dei tali zotici...Non sono come noi!! Noi siamo migliori... abbiamo studiato. In fin dei conti, siamo ebrei tedeschi!”.
E' il razzismo ovunque, il pregiudizio di clan contro clan, che a loro volta contengono sottoclan in lotta tra loro. E' la concretizzarsi del motto caucasico “Io e mio fratello contro mio cugino, io e mio cugino contro il mondo”.

Solo il saggio padre di Willy (il cui fallimento nel lavoro è il simbolo di un'America che non premia chi segue i suoi ideali più di quanto non premi chi vede solo la sua realtà concreta) sa dare una motivazione: “Nella vita, Willie... come nell'arte... è una questione di prospettiva!”.
La guerra, con la sua concretezza, la sua brutale realtà fatta di elementi basilari (vivere, lottare, morire), priva degli orpelli che l'uomo e la società costruiscono, darà la giusta prospettiva, che Will (e con lui tutti gli americani) ha cercato per tutta la sua giovinezza.

La struttura della narrazione è complessa, ma non complicata. E' un viaggio su un treno che è insieme un viaggio nella memoria: il vecchio e saggio Will Eisner degli anni '90 scrive e disegna il giovane Will del 1942, che cerca la sua strada nell'ultimo momento di pausa prima della tempesta della guerra; il Will del 1942, che sta per diventare un uomo più mentalmente che anagraficamente, ricorda il piccolo Willie degli anni '20 e '30; questi, a sua volta, sente i racconti dei genitori sulle loro vicende nei primi venti anni del 1900.
Un secolo breve in un viaggio.

Questa struttura che ci porta nel fluttuante tempo del ricordo, mostra le fasi della ricerca di questa prospettiva: l'Eisner degli anni '90 'appare' come narratore solo nella prima tavola, introduttiva e generale, che da' la chiave di lettura di tutta l'opera: “per questi giovani era un viaggio indimenticabile verso una nuova vita. Alle spalle lasciavano gli anni della giovinezza. Davanti a loro, un futuro in gran parte sconosciuto... era un momento di riflessioni, di bilanci... istintivamente sapevano che i loro valori e i loro pregiudizi sarebbero stati messi presto alla prova, e che mai più, forse, nell'arco delle loro vite, ci sarebbe stato un momento come quello”.

Il Will del 1942 appare ogni tanto a collegare i ricordi, ma parla poco, lasciando al doppiamente emarginato turco cattolico Mamid le riflessioni sul contemporaneo: nel 1942 Will riflette e comprende gli errori fatti e gli insegnamenti ricevuti nel passato.

Il piccolo Willie che cresce negli anni '30, subisce il razzismo e non lo accetta, adottando soluzioni che non risolvono nulla (il fratellino che da Julian diventa Pete per evitare scontri!). Poi ne rinnega la 'normalità', radicata nei genitori, facendo finta che non esista: Willie non invita i propri genitori alla festa di diploma della fatua Heidi, per nascondere le sue origini in nome di quell'ideale americano che era la fusione tra le etnie, il melting pot.
E' la soluzione dello zio di Will, “sono ebreo solo se gli altri pensano che lo sia!”: non eliminare il pregiudizio, ma 'passare dalla parte giusta della barricata'.
Ma nel 1940 Will si trova sbattuta in faccia la realtà: anche l'amico più caro, Buck, ha in sé il germe malvagio di un antisemitismo che è una categoria mentale, che genera sospetti infamanti anche su un amico che subito dopo si invita a pranzo. Questo antisemitismo appare come un inciso, nulla più una battuta tanto per dire, nelle intenzioni di Buck senza intenti offensivi, e per questo ancora più crudele per Will.

E' allora che Will capisce: in una tormentata notte la realtà esce fuori oltre tutte le illusioni. I cattivi non sono stati catturati alla fine dell'avventura, ma sono sfuggiti: la realtà è diversa dal sogno.
E' la saggezza popolare dell'inserviente a dare la chiave: “Forse qua dentro [nello studio fumettistico di Eisner, N.d.R.] si sente al sicuro... Fuori, nel mondo reale, succedono cose che è impossibile controllare”.
La degna conclusione di questo romanzo grafico è nelle frasi di Mamid, e non di Eisner, per dare una dimensione universale alla sua riflessione su una storia che è universale.
Mamid, convertito per integrarsi, riesce a “convivere con una memoria selettiva e con la tirannia di una speranza che non muore”, e così ritrova il senso della propria identità.

Will nel 1942 e nel 1990 è come lo HOJA NASREDIN (un sufi mussulmano turco, non un saggio rabbi da citare), “un saggio che cavalca il proprio somaro sempre al contrario... per vedere da dove viene!... in fondo... dove va è nelle mani di Allah!”.

Cos'è, dunque, l'antisemitismo in 'Verso la tempesta'?
E' una delle categorie mentali di un mondo che vive permeato di un razzismo totale.
E solo quando giunge alla consapevolezza del razzismo, Will cresce, e diventa uomo.

Le immagini sono tratte dal web, di proprietà dei rispettivi autori. Qui sono inserite solo per corredo all'analisi critica.

lunedì 25 giugno 2012

Tre modi di vedere l'antisemitismo nei comics americani 1 - Maus, o l'antisemitismo come causa del male (meno 1933.4 al BigT)



Per la vicinanza cronologica e la sistematicità con cui fu realizzata, la persecuzione nazista è, agli occhi di noi 'occidentali' odierni, la manifestazione antisemita per eccellenza.

Realizzata a partire dal 1933 fino al 1945, l'Olocausto partì dalle tristemente tradizionali violenze contro i beni per arrivare al tentativo della 'soluzione finale' richiesta da Hitler. La persecuzione cruenta contro gli ebrei non è stata un evento raro in questo secolo (basti pensare ai pogrom in Russia), ma il progetto di un'eliminazione totale degli ebrei fu un'atroce novità, della quale gli ebrei stessi non si resero conto se non quando fu troppo tardi. Testimonianza di questo “tragico risveglio” lo ritroviamo in Maus di Art Spiegelmann.

Figlio di due ebrei sopravvissuti al campo di concentramento di Auschwitz, il fumettista Art racconta la storia dei genitori, una storia che sulla sua vita ha avuto un influsso determinante: la madre Anja si era suicidata, non avendo mai superato il trauma dei campi e della morte di tutta la sua famiglia; l'educazione dura del padre Vladek rifletteva la terribile esperienza; tutti gli amici dei genitori erano anch'essi scampati ai campi; per il piccolo Art era normale che nel sonno tutti si lamentassero, in preda ad atroci incubi...
La prospettiva con cui l'autore ha vissuto e subito l'esperienza dei genitori si trova, emblematica, già nelle prime due tavole: Art, a New York parla al padre dei suoi amici con cui ha litigato. Siamo nella sicura e tollerante New York, e si tratta di litigi tra bambini. Ma Vladek non riesce a consolare il figlio prescindendo dalla sua vicenda: “Amici? Tuoi amici?... Se tu chiudi loro insieme in stanza senza cibo per una settimana ALLORA sì scopri cosa è amici”.

La persecuzione, Auschwitz, entrano costantemente nella vita di Art, sono l'origine dei 'guai' dei genitori, ma anche del figlio. New York non è abbastanza lontana, nessun luogo lo è.
La vita del giovane Art è sempre stata dominata dalla figura paterna e dall'ombra dell'Olocausto: dal confronto impossibile con il fratello Richieu, morto nelle persecuzioni, al ricordo di tristi pranzi in famiglia (“Da piccolo, se non mangiavo TUTTO quel che mi serviva la mamma, papà e io litigavamo e alla fine io correvo nella mia stanza in lacrime... a volte me lo faceva rimettere davanti per giorni e giorni fino a che non lo mangiavo o morivo di fame”), al continuo conflitto con un padre in grado di cavarsela in qualunque situazione, di fronte al quale Art si sentiva (e si sente) ancora inadeguato.
Cresciuto, Art vorrà capire perchè il padre si comportava così con lui, perché Vladek soffriva e perché, di conseguenza, anche Art soffriva. E' un'indagine al confine tra la psicologia, l'analisi storica, la religione: Art indaga per scoprire le radici della sua sofferenza, ma questo lo porta a un'indagine sulla sofferenza dell'umanità intera.

Maus è la storia di questa ricerca, articolata su due piani: la storia di Vladek ed Anja da un lato e dall'altro quella di Art che vuole far sua questa storia, perché ne ha vissuto le conseguenze sulla sua pelle.

Art si sente in colpa verso un padre che non riesce mai ad accontentare, che ha un figlio vivo e perciò fallibile, ed un figlio morto che, proprio per l'assenza di prove contrarie, avrebbe potuto renderlo orgoglioso.
Art si sente in colpa verso la madre, per non esserle stato abbastanza vicino, per non aver capito il dolore che l'ha portata al suicidio. La distruzione dei diari della madre, che chiude il primo volume di Maus è simbolica: Vladek ha distrutto (“Troppi ricordi!” si giustifica) un lascito che Anja aveva destinato esplicitamente al figlio, diari cercati ufficialmente per la storia a fumetti, ma che si intuisce siano in realtà la possibilità di Art di redimersi dal senso di colpa, di trovare quel contatto con la madre che si era interrotto, come ne 'Il prigioniero del pianeta Inferno' (un vecchio fumetto di Art).
Ancora una volta Vladek si contrappone al tentativo del figlio di superare il dramma.
Art si sente in colpa paradossalmente perché non ha vissuto Auschwitz: all'inizio del secondo volume, dice alla moglie (e a sé stesso): “A volte avrei voluto essere ad Auschwitz con i miei per capire veramente cosa hanno passato!... Forse ho un senso di colpa per avere avuto una vita più facile di loro.”

In un incubo, un giornalista chiede ad Art: “Può dire al nostro pubblico se disegnare Maus è stato catartico? Si sente meglio, ora?”.
No, Art non si sente meglio, perché non riesce a capire, non trova la chiave. Ne parla al suo analista, Pavel, un altro scampato ai campi ed emerge ancora il confronto con Vladek. E nonostante la dimostrazione che il padre aveva torto (Art non é un fallito, Maus é un capolavoro), Art non riesce a cancellare il proprio 'peccato originale': “Qualsiasi cosa realizzi io, è niente rispetto al fatto di sopravvivere ad Auschwitz”.

Ma è vero?

Art si rivolge a Pavel perché è un bravo analisto, o piuttosto perché si tratta di un altro sopravvissuto, perché inconsciamente cerca un altro padre simile a Vladek nelle esperienze ma più comprensivo?
In realtà c'è una sostanziale differenza nella visione dell'Olocausto che hanno Vladek e Pavel: Vladek in tutti gli episodi narrati sottolinea continuamente la sua abilità, il suo comprendere prima degli altri come é necessario muoversi per cavarsela; in tutte le sue vicende Vladek commette un solo errore, e quell'errore porterà lui e la moglie ad Auschwitz, ma sa rimediarvi: lui ed Anja sopravvivono. Pavel, al contrario, attribuisce sopravvivenza e morte al puro caso.
Con il padre Art si sente sempre un bambino piccolo, inadeguato, dopo il colloquio con Pavel Art 'ricresce', torna adulto. Per crescere, per superare quella Auschwitz che non riesce a visualizzare (lapsus freudiano?), Art deve riuscire a vedere il padre per quello che era davvero.
E la narrazione stessa di Vladek, sincera e persino impietosa, lo aiuta.

E' una scoperta dolorosa: Art scoprirà che Vladek non è diventato così ossessivo e sicuro di sé, tanto da schiacciare gli altri, a causa dell'Olocausto, come Art pensava all'inizio. Vladek era già così anche prima, per una amara ironia pieno dei difetti che il razzismo tradizionale attribuisce agli ebrei: gli episodi del fidanzamento con Anja (il sentimento non prescinde da considerazioni economiche e calcoli sulla sua capacità di casalinga e sulla sua salute) o i continui riferimenti all'avarizia di Vladek, ai suoi pregiudizi nei confronti di comunisti e negri, sono spie di questa mediocrità, di questa grettezza che è in Vladek quanto in altri uomini.
Vladek non è solo uno scampato: è soprattutto un uomo, con tutti i pregi e i difetti dell'uomo qualunque. La sofferenza non è una ragione sufficiente per la santificazione di chi santo non è, ma solo un uomo con i suoi limiti.

Eppure Maus è un racconto aperto, perché quelli che ai nostri occhi sono difetti, proprio questa sua oculatezza, questo misto tra astuzia e previdenza hanno permesso a Vladek di sopravvivere!
Art riuscirà a superare il confronto con il padre?

Maus porta come sottotitolo 'Racconto di un sopravvissuto': chi è il sopravvissuto che racconta? E' di certo Vladek, ma anche Art lo è.
E' sopravvissuto all'antisemitismo ed al nazismo, che ha conosciuto perché madre e padre non erano riusciti a librersene. E' sopravvissuto al padre che, come giustamente dice a Françoise, “In un certo senso non é sopravvissuto”.
E Pavel conferma: “Forse tuo padre aveva bisogno di mostrare che aveva sempre ragione... che poteva sempre sopravvivere... perché si sentiva in colpa per essere sopravvissuto. E ha passato la colpa su di te, dove era al sicuro... Sul VERO sopravvissuto”.
Cos'è l'antisemitismo in Maus?
E' l'orrore, la violenza fisica e psichica, il fulmine che ti colpisce anche se é caduto a miglia da te.
E' un'esperienza immensa, insuperabile, che pervade la vita di chi l'ha vissuta in prima persona e di chi é figlio dei sopravvissuti.
E' una maledizione che, per dirla biblicamente, colpisce fino alla settima generazione, il peccato originale da cui derivano sia i mali di Vladek che quelli di Art, di questo peccato vittime innocenti.
E' anche un punto di partenza per capire e denunciare la malvagità dell'uomo ma anche per esaltare la sua straordinaria capacità di resistere anche alle prove più dure.
E' una ricerca sulle cause di un male che é personale eppure é universale.

E' un'esperienza in cui i vivi a volte rimpiangono di non essere morti.

E spesso i vivi sono solo sopravvissuti. 

Immagini tratte da Internet e proprietà dei rispettivi autori. Qui appaiono solo come supporto all'analisi

sabato 23 giugno 2012

Opinioni autorevoli - Before Watchmen (meno 12.12 al BigT)

(Inconsapevolmente) su Before Watchmen. Un barbuto scrittore parla di un altro scrittore barbuto
Alan Moore (dal web)

"Molto è stato scritto sulle innovazioni narrative di Moore e queste sono state largamente imitate. Tuttavia mi sembra che pochi dei suoi imitatori abbiano anche solo capito la natura delle sue soluzioni tecniche, derivate non da un desiderio di originalità fine a sè stessa, ma dal desiderio di realizzare una storia più complessa, di trasmettere le proprie idee. Come risultato, lo abbiamo visto creare metodi su metodi per distanziarsi da quelli che ha influenzato e che secondo me hanno quasi sempre svilito le sue tecniche, prendendo lo strato superficiale di ciò che lui ha fatto e trasformandolo in cliché narrativi che non rispondevano più alle esigenze di ciò che nel caso di Moore è una meditazione complessa e spesso profonda sui problemi fondamentali del nostro tempo"
M. Moorcock, Un Mondo visionario, 2006, in Watchmen 20'anni dopo, Lavieri, a cura di Smoky Man (traduzione di P. Livorati)
Michael Moorcock (dal web)

giovedì 21 giugno 2012

Tre modi di vedere l’antisemitismo nei comics americani - 0. L’America, nuova Terra Promessa (meno 19,33 al BigT)

L’America, la Terra delle opportunità. L'America, con i suoi ideali di democrazia, di possibilità di praticare liberamente il proprio culto e di diritto alla ricerca della felicità.
Proprio per questo l'America divenne una nuova Terra Promessa per molti ebrei, da secoli perseguitati e segregati nella Vecchia Europa e (almeno fino alla fine della seconda guerra mondiale) lontani dalla possibilità di costruire lo Stato di Israele.

L’insediamento degli ebrei in America fu tollerato, produttivo, e non è raro trovare un ebreo in una posizione di prestigio. Ci sono stati, certo, rari episodi isolati di intolleranza, puntualmente riprovati e puniti dall’opinione pubblica, ma la persecuzione a causa del proprio credo è un fatto estraneo alla vita dell’ebreo medio americano. E' qualcosa di narrato nei suoi eccessi dai correligionari immigrati prima o subito dopo la seconda guerra mondiale, pur se vissuto con partecipazione per la forte solidarietà del gruppo.

Questa lontananza/vicinanza del problema si è riflessa in tutti i campi artistici in cui gli ebrei americani si sono distinti, non ultimo il fumetto.

La presenza di artisti ebrei nel fumetto americano risale fin alle origini: ad esempio erano ebrei Siegel e Schuster, gli inventori di Superman, l’icona del fumetto americano.
E il fumetto ha dedicato all’antisemitismo alcune tra le sue pagine più belle con MAUS di Art Spiegelmann e Verso la Tempesta, di WILL EISNER: in queste due graphic novel l’ostilità contro gli ebrei, in forme diverse, fa da filo conduttore della narrazione.

In questi post, sulla scia dei temi della maturità, ripescando e rivedendo articoli scritti nel 2000 per il primo numero della fanzine Clark's Bar (che non vide mai la luce), mi propongo di esaminare quale sia, a mio parere, il diverso significato assunto dall’antisemitismo in queste due opere.
Infatti diversi sono gli autori e il loro vissuto: Spiegelmann è un ebreo americano, figlio di Vladek, sopravvissuto ad Auschwitz; Eisner è un ebreo nato e cresciuto in America, da genitori emigrati a inizio secolo.
E così diverse sono le visioni che vengono date: Spiegelmann ci propone l’interpretazione dell’Olocausto sua e del padre Vladek, ebreo europeo che ha vissuto sulla sua pelle l’orrore del campo di concentramento, e le conseguenze di questo orrore che superano le vite dei protagonisti per riflettersi sui discendenti, quasi (tragicamente ironico) come per una maledizione biblica.
Eisner racconta come nella sua vita l’antisemitismo sia stato un ostacolo infido e costante, che tuttavia non sfocia in atti particolarmente cruenti.

Infine, intendo esporre anche l’interpretazione dell’antisemitismo data da CHRIS CLAREMONT in alcune vicende dei suoi X-Men: l’autore inglese ha fatto dell’odio razziale e dell’emarginazione del “diverso” il fortunato leit-motiv delle sue saghe mutanti degli anni '70 e '80, ed è un buon rappresentante della visione dell’antisemitismo da parte di un americano tollerante, ma non ebreo.

domenica 17 giugno 2012

FIDA DIDA 9 – INUTILI STATISTICHE (meno 8.5 al BigT)



Una volta ho registrato e segnalato tutte le volte in cui nell'Incal di Jodorowsky\Moebius John DiFool, il protagonista, moriva o rischiava di morire. Mi sembrava una cosa interessante, anche per la frequenza con la quale ciò accadeva (circa una volta ogni dieci tavole), tanto da poter far nascere riflessioni sull'uso filosofico del cliché.

Però per qualcuno era una stupidaggine. 

Lo rivedo ancora mentre con ironia diceva agli altri compagni di fanzine (alcuni dei quali ridevano bovinamente perché il tipo “era simpatico”, e quindi qualunque cosa dicesse doveva essere per forza divertente e simpatica) che forse bisognava controllare quante volte andava in bagno. 
DiFool non ci andava neppure una volta, né lo fa l'Uomo Ragno, Batman o Superman. 
Però Alack Sinner ci va.

Perché questa rievocazione di momenti di comic-bullismo? 
Oltre che per il rancore infinito che mi pervade (:-D) lo ho citato per dire, ancora una volta, che state per leggere un post che non dice quanto sia figo un fumetto. Non dice neppure come fare un fumetto figo. E neanche le tecniche usate in un fumetto passabile.
E' una appendice al lavoro fatto negli ultimi post, quelli sulle didascalie in Watchmen.

E' semplice statistica: tipo di didascalia e albi in cui compare. Tutto qui. 
Se non volete leggere i numeri, non leggete questo post.

Se poi i dati oggettivi possano essere la base su cui fondare i giudizi e le analisi, è una discussione che dovete fare con i tipi simpatici.

Ecco la sintesi dei diversi tipi di didascalia usata da Moore, e dove li ritroviamo:
1) Il Diario di Rorschach di cui abbiamo parlato QUI, appare negli albi I, II, V, IX.
2) Il testo del fumetto dei pirati, di cui abbiamo parlato QUI, appare negli albi III, V, VIII, IX, XI.
3) Dialoghi effettivamente pronunciati in un'altra scena che proseguono, come voci fuori campo, su vignette che riportano flashback o scene contemporanee che però si svolgono altrove; ne abbiamo parlato QUI, e appare negli albi I, II, III, VI, VII (una vignetta!), VIII, IX, X e XI.
4) Il diario del Dottor Long, di cui abbiamo parlato QUI appare nell'albo VI.
5) Pensieri veri e propri del Dr. Manhattan, di cui abbiamo parlato QUI, appare nell'albo IV.
6) TV di cui abbiamo parlato QUI, appare nell'albo VII e nella tavola 28 dell'albo XII.

Invertendo il processo (solo per comodità di uso della tabella) ecco l'analisi dei tipi di didascalia dal punto di vista degli albi.
Albo I: tipi 1, 3.
Albo II: tipi 3, 1.
Albo III: tipi 2, 3.
Albo IV: tipo 5.
Albo V: tipi 1, 2.
Albo VI: tipi 4, 3.
Albo VII: tipi 6, 3 (una sola vignetta!); in un certo senso alle tavole 25 e 26 anche la canzone di Billie Holiday ha la stessa funzione di didascalia.
Albo VIII: tipi 2, 3.
Albo IX: tipi 3, 2, 1.
Albo X: tipo 3.
Albo XI: tipi 2, 3.
Albo XII: nessun tipo. Compare la tv, ma come abbiamo detto, funzionalmente è più una sorta di “voce dialogante” che una didascalia, salvo forse nella tavola 28 vignette 1-5.



E' da ribadire, ancora una volta, come qui si intenda la didascalia (o, nel caso della TV: un uso funzionale simile a quello della didascalia) quando essa sia una voce parlante nel fumetto, segnalata da un box rettangolare e non dal balloon; accade a volte che ci sia una “voce” in balloon su immagini tratte dal fumetto dei pirati, come in albo X, tavola 13, ma in questo caso si deve intendere la pagina dei pirati come un dettaglio della scena all'incrocio, da cui proviene la voce.
Il diario di Rorschach compare anche nell'ultima vignetta dell'albo XII, ma come disegno, così come più volte Veidt è davanti a schermi televisivi di cui non udiamo l'audio: ne consegue che qui questi strumenti non abbiano la funzione di didascalia che stiamo analizzando.

Detto ciò, come visto, i tipi di didascalia hanno una frequenza diversa nel corso della saga.
Vediamo il dettaglio del numero degli albi: un'analisi interessante sarebbe forse anche quella del numero di vignette complessive in cui compare ciascun tipo, ma potremmo davvero turbare le persone simpatiche.

Con 8 albi (più una vignetta in un nono albo) il tipo più diffuso è quello del dialogo che prosegue in didascalia in un'altra scena. E' il metodo che consente, tra l'altro, svariati cambi scena analogici, e quindi questo “primato” non ci dovrebbe sorprendere.

Con 5 albi in cui compare, al secondo posto si colloca il Fumetto dei Pirati. E questo è già un po' meno scontato, visto che supera in frequenza il Diario di Rorschach, con i suoi 4 albi. Meno scontato, in quanto il diario di Rorschach rappresenta un filo conduttore delle indagini, quindi è interno alla storia.
Perché, allora, l'ampio spazio dedicato ai pirati? Intanto, come detto nel post apposito, la tecnica del “fumetto-nel-fumetto” (poi ripreso da Moore in Supreme) permette una riflessione sul fumetto stesso. In secondo luogo è il contrappunto più “oggettivo” che viene dato alle vicende: la tecnica delle didascalie del Terzo Tipo (honni soit qui mal y pense!) prevede una sottolineatura che parte da parole di personaggi ***interni*** alla vicenda, e quindi coinvolti. Il fumetto di pirati è qualcosa che apparentemente non riguarda la storia che viene raccontata (escludiamo il fatto che l'autore sia coinvolto inconsapevolmente nel piano di Veidt), e quindi dà un punto di vista “esterno”, un commento tanto più vero in quanto determinato dalla sincronicità e quindi dalla coincidenza (cosmica?).

Infine è rilevante come i tipi 4, 5 e 6 siano esclusivi di un singolo albo, e che la loro presenza in quell'albo sostanzialmente escluda gli altri tipi (con i dovuti, piccoli dubbi ed eccezioni segnalati).

La scelta del tipo di didascalia, anche da questi freddi numeri, appare sempre di più assolutamente non casuale.

Infine: sarebbero da analizzare anche le citazioni al termine di ogni albo. Tecnicamente si tratta di paratesto, ma visto che danno la possibilità di vedere sotto un'altra luce l'intero albo, assumono una funzione che è simile a quella delle didascalie analizzate. Ma la assumono anche i titoli dei giornali nelle vignette. E le appendici agli albi. E così via.
L'analisi di Watchmen non sarà probabilmente mai completamente esaustiva, perché la serendipità potrebbe far emergere cose che neppure il duo creatore aveva previsto.
Un'analisi infinita, perché “niente ha mai fine”.



PS: come sempre, immagini, Tavole e traduzione sono copyright degli aventi diritto. Per il fumetto sono tratte da Watchmen – Sotto la Maschera, I classici del fumetto di Repubblica Serie Oro 26, 2005 (DC Comics e Panini S.p.A.); l'immagine di testa è tratta da Internet... e tutto ciò non è qui posto per fini di lucro, ma solo per esigenze di critica.

FIDA DIDA 8 – RUMORI DI FONDO (meno 198.5 al BigT)


Per gli amici che si fossero persi le ultime puntate...
QUI abbiamo iniziato a inquadrare il tema delle didascalie in Watchmen. Abbiamo identificato questi tipi di uso della didascalia:
1) Il Diario di Rorschach di cui abbiamo parlato QUI;
2) Il testo del fumetto dei pirati, di cui abbiamo parlato QUI
3) Dialoghi effettivamente pronunciati in un'altra scena che proseguono, come voci fuori campo, su vignette che riportano flashback o scene contemporanee che però si svolgono altrove, di cui abbiamo parlato QUI;
4) Il diario del Dottor Long, di cui abbiamo parlato QUI;
5) Pensieri veri e propri del Dr. Manhattan, di cui abbiamo parlato QUI.



E finalmente eccoci giunti all'ultima stazione di questo viaggio nelle didascalie di Watchmen.
Ohibò, ciò di cui parleremo oggi, in realtà, non è che si possa definire veramente una didascalia...
Siamo nel capitolo VII, in cui non compare alcun tipo di didascalia. O meglio, ne compare una, brevissima, alla tavola 23, Vignetta 3 (frase pronunciata da Nite Owl che prosegue dalla vignetta precedente).
Per il resto silenzio.

Ma ne siamo sicuri?

A leggere bene, nelle tavole dalla 11 alla 15 siamo a casa di Dan. Qui Laurie e Dan, tra riflessioni su ciò che sta accadendo ai Vigilantes e sulla guerra, iniziano la loro “patologica” seduzione (nel suo sogno da adolescente, Dan visualizza prima Twilight Lady, una supervillain sadomaso; Laurie nel dormiveglia chiama Manhattan).
In queste tavole la televisione fa da voce in sottofondo: la vera scena inizia con la tv che viene accesa, e finisce con la tv che viene termina i programmi, benché non venga spenta.

La tv compare spesso, come strumento di informazione (specie per Veidt) o disinformazione (l'episodio dell'intervista a Manhattan). Certo, non siamo ai livelli anni '80 di presenza nella storia che troviamo nel Dark Knight di Frank Miller o nei film di Verhoeven (specie il primo Robocop o Starship Troopers... senza dimenticare che il secondo e il terzo Robocop furono sceneggiati proprio da Miller), ma la tv compare.

E qui compare a contrappuntare ciò che avviene "in primo piano", funzione svolta altrove, appunto (e scusate il bisticcio) dalle didascalie.
Benché tecnicamente l'audio della televisione non sia un fuori campo come accade alle didascalie, la sua funzione narrativa e linguistica è la stessa.

In realtà abbiamo diversi livelli e diverse fasi della tv in questo episodio, come se Moore avesse voluto nasconderci i diversi usi proponendoci una varietà che potrebbe suggerire al lettore disattento la casualità.
Vediamole tavola per tavola.

ATTENZIONE! CONTIENE SPOILER!

Nella tavola 11 la tv viene accesa da Laurie, apparentemente come sottofondo. E' l'ora del notiziario, ma Laurie e Dan parlano di altro.
Prima notizia: aumento degli incendi. Alla fine dell'albo i due Vigilantes tornati in azione interverranno proprio su quelli. La tv è una profezia.
Poi si passa (tra tavola 11 e la 12) alle indagini su Rorschach. Altre profezie (la padrona di casa che tornerà in seguito, Godfrey) e una triste illusione: l'intervista al Dottor Long, lo psichiatra che in video si dichiara “fiducioso e ottimista”, mentre noi sappiamo dall'albo VI che Long saraà annichilito dall'incontro con Rorschach.
Poi si passa alla politica estera, l'invasione russa dell'Afghanistan, proprio mentre Laurie, parlando di Rorschach, dice che “abbiamo tutti i nostri problemi”. E il finale di tavola è dedicato alla Madre Inghilterra, con le sommosse di Greenham Common riviste in salsa Watchmen. 
(Se volete sapere quale sia il riferimento nella nostra realtà, leggete qui)

Con tavola 13 i contrappunti aumentano, mentre Dan e Laurie diventano indifferenti alla tv. Finisce l'interazione, la tv assume quel ruolo di “didascalia” che abbiamo visto specie per il fumetto dei pirati.

E a proposito dei fumetti dei pirati, a Tavola 13 vignette 2-3: si parla della scomparsa di Max Shea. Dan e Laurie parlano del teletrasporto, e più avanti scopriremo che Shea è stato assoldato per il folle progetto di Ozymandias che implica un teletrasporto.

Vignetta 4: si parla dell'Istituto per gli Studi Extraspaziali, di nuove dimensioni, di prospettive “eccitanti ma anche allarmanti”. Dan commenta che il vapore gli ha appannato le lenti. Simbolismo semplice: non vede nemmeno cosa ha davanti agli occhi. Non dimentichiamo che il mostro di Veidt si materializzerà a New York proprio in quell'edificio.

Vignette da 5 a 7: intervista al Dottor Corey, un fisico che esalta i successi nella ricerca di nuove fonti di energia. Laurie passa a un approccio fisico (il gioco di parole ci sia permesso) con Dan, e la chiusa in Vignetta 7 è indicativa: Laurie dice a Dan che è inibito, mentre alla tv Corey dice che “le nostre attività esplorano spazi che ieri credevamo irraggiungibili”. Attenzione: stiamo parlando di Dan, di una personalità infantile che sogna i supereroi e in loro si identifica tanto da volerli imitare; che scrive articoli ornitologici che la gente trova noiosi (e perfino Laurie che gli ha appena chiesto degli articoli non ascolta nemmeno la risposta...); che a tavola 16 sogna di avere un rapporto con Twilight Lady, una "reginetta del vizio" dominatrix di cui conserva una foto, come conserverà il Tijuana Bible dedicato alla prima Silk Spectre; l'uomo che Veidt invita a crescere e che finirà la storia cercando di ricreare un duo di vigilantes con Laurie; il cui unico vero amico è il suo modello da supereroe, il Nite Owl I.
Il sogno sta per diventare realtà, ma Dan ancora non ci crede.

Dalla penultima vignetta di tavola 13 alla tavola 15 c'è la sezione televisiva dedicata a Veidt. Prima abbiamo la pubblicità di Nostalgia (lo spot alla tv dice che è incredibile come “uno così indimenticabile... trovi indimenticabile anche me”) mentre Laurie bacia Dan. Da notare: è Laurie a baciare Dan, non il contrario. Ripetiamo: anche nel sogno di Dan, Twilight Lady appare come una dominatrice con tanto di frustino! Ed è stata lei a mandare la foto a Dan (si suppone con allegate proposte), foto di cui Dan non riesce a "disfarsi".

Le vignette 2-4 della tavola 14 presentano Ozymandias a uno spettacolo di beneficenza. La prima fase è il riscaldamento per Veidt... ma anche per i due amanti.

Poi Moore inizia a scatenarsi con i doppi sensi e il contrappunto: ciò che dice la tv contraddice ciò che accade a Dan e Laurie. Nella vignetta 5 Veidt con “sicurezza... afferra la sbarra, iniziando il numero”, mentre tra i due c'è il dubbio di non essere nella “posizione giusta”. Nella 6 i movimenti di Ozymandias vengono descritti come “fluidi e spontanei, senza esitazioni o tremori”, mentre il dialogo tra gli amanti mostra la difficoltà a svolgere una operazione “complessa” come sbottonare la camicetta di Laurie.
Nella 7 apparentemente si cambia registro: il pubblico di Veidt si elettrizza ai suoi volteggi, e Laurie geme di piacere. Ma è un gioco tra Moore e il suo lettore: alterna momenti in cui tutto sembra “andare bene” tra gli amanti (e la voce della tv rafforza ciò che accade con un contrappunto positivo) a momenti in cui le cose “non procedono” (e allora la voce della tv da' un commento involontariamente ironico). Infatti già nella 8 Dan è imbarazzato su come posizionarsi, mentre la tv esalta “la grazia dei suoi [di Veidt, ndr] movimenti... straordinaria per un uomo di oltre quarant'anni”.
La 9 sembra riportarci sulla via del successo. Mentre Veidt ruota elegante, passando “da un'asta all'altra” (e qui i doppi sensi si possono sprecare), i due amanti gemono di piacere.


A tavola 15 la vignetta 1 riprende invece la differenza tra tv e “realtà”: mentre Veidt è “perfetto”, Dan inizia la sua defaillance. Nella vignetta 2 Ozymandias conclude perfettamente il suo numero, Dan ormai dichiara il suo fallimento, mentre Laurie lo consola. Nella 3 l'applauso della folla e i ringraziamenti contrappuntano la frase di Laurie: “abbiamo un sacco di tempo”. Sono le 8 meno 20 p.m.

E poi l'escalation. La vignetta 4 è spietatamente sarcastica. Sono le 11 di notte, la tv saluta, dopo tre ore Dan è ancora impotente. 
La 5 parla di una pausa pubblicitaria durante il film della notte, che esalta “meltdowns... con la loro esplosione di frutta e il delizioso nucleo fondente...” (ancora una volta il doppio senso è garantito), ma Dan è ormai crollato addormentato. E la 6 è la conclusione: sono le due del mattino, la tv saluta e invita a riposarsi facendosi un “sonnellino”, mentre anche Laurie rinuncia e, poche vignette dopo, nel bianco della tv lasciata accesa ma senza programmi, si addormenta.

Non stiamo qui a parlare del sesso tra Dan e Laurie, che più avanti avrà come sottolineatura di un risultato ben più positivo le immagini di volo e di lanciafiamme (ma lì le maschere aiuteranno). Qui quello che ci interessa è il rapporto tra le diverse voci (e immagini) che confluiscono nelle vignette, il “sottolinguaggio” valutato da Moore, per cui la combinazione di testo e immagine dà più informazioni della semplice somma delle informazioni date dalle due componenti singolarmente.
Come detto e visto, la tv che parla, tra i protagonisti indifferenti, ha la stessa funzione che avevamo visto per le didascalie di dialogo o per i diari: vale per sé stessa (sono date numerose informazioni sulla vicenda, anche se non coglibili immediatamente\non colte dai protagonisti), ma vale anche quale elemento della miscela alchemica che è la vignetta in Watchmen.

Per concludere questo nostro discorso: la vera sfida di Watchmen non è stata quella di raccontare le vicende di un gruppo di personaggi dalla psiche complessa che giocano a fare i supereroi.
La vera sfida è stata quella di trovare nuove vie di espressione per il fumetto, testuali, grafiche, e soprattutto nascenti dalla combinazione dei due elementi che fanno il medium fumetto. Questo breve studio sull'uso delle didascalie (ohibò! Breve?) vuole essere un esempio di cosa si nasconde “sotto la maschera” di un indagine poliziesca su un delitto che porta a cercare di salvare il mondo.
Chi volesse fare un Watchmen II o un Pre-Watchmen deve entrare in competizione su questo piano, non su un piano puramente narrativo.
Perché sulle “cose da dire sulla vita dei personaggi”, ben poco di interessante si potrà aggiungere.


Una piccola nota finale (se qualcosa ha mai fine, in Watchmen).
Come detto, il capitolo VII (con l'eccezione detta) e il Capitolo XII sono gli unici privi di didascalie. Anche nel XII “compare” la voce della televisione, ma lì questo suono non è un rumore di fondo: è una delle voci che “dialogano”.
Spiego meglio: ciò che dice la televisione viene ascoltato, ripreso e commentato dai personaggi in scena, la televisione qui è un “personaggio presente”, che interagisce con i personaggi della scena, a differenza di ciò che accade con tutte le didascalie eccetto quelle del pensiero del Dottor Manhattan. Ma nel capitolo XII, come detto, tutto ormai è spiegato: non servono contrappunti, interpretazioni. Tutto va vissuto nell'istante, per i protagonisti e per il lettore, e le didascalie scompaiono.


PS: come sempre, immagini, Tavole e traduzione sono copyright degli aventi diritto. Per il fumetto sono tratte da Watchmen – Sotto la Maschera, I classici del fumetto di Repubblica Serie Oro 26, 2005 (DC Comics e Panini S.p.A.); l'immagine di testa è tratta da Internet... e tutto ciò non è qui posto per fini di lucro, ma solo per esigenze di critica.  

venerdì 15 giugno 2012

FIDA DIDA 7 – DIDASCALIE E ASSOLI (meno 75.2 o 0.1 al BigT)



Il nostro percorso volge alla fine.
Tecnicamente questo è l'ultimo dei diversi usi della didascalia che Moore ci presenta nei diversi albi di Watchmen. L'ultimo uso riguarda qualcosa di simile alle didascalie, ma che tecnicamente (e due!) è un dialogo.

Cosa analizzeremo, oggi? Ma le didascalie del capitolo IV, l’albo dell'assolo del Dottor Manhattan.

La situazione narrativa è questa: il Dottore è su Marte (Jon Osterman come John Carter), con una vecchia foto, l'unica foto rimasta di lui prima della trasformazione.
E pensa.
Le didascalie sono la trascrizione del suo pensiero.
Fine.
Semplice, e “abituale” nel mondo del fumetto.

Moore è abituale? Banale?
Ovvio che sì, certo. I suoi fumetti comunicano in modo comprensibile, quindi attinge necessariamente a moduli e modelli comuni alla gran parte dei lettori. La maggior parte della produzione di Moore (e non potrebbe essere diversamente) è nella linea del codice fumetto.
Moore ha innovato, ma per lo più lo ha fatto nel solco della tradizione, sfruttando al massimo e in modo nuovo stilemi già esistenti.

Però in Watchmen anche la banalità, come usare la didascalia per raccontare i pensieri di un personaggio, diventa “speciale”.
Cosa rende “speciale” quest’uso della didascalia?
Il fatto che Moore non si limita a usare la didascalia per riportare i pensieri del Dottore. La didascalia è un espediente per rappresentare l'irrapresentabile, l'inconcepibile: la percezione del tempo che ha Manhattan.


Il Dottore percepisce, vive contemporaneamente tutti gli istanti del tempo in cui è vissuto. La Quarta Dimensione (quella di cui abbiamo parlato in questo postprecedente e su cui si torna in From Hell) è qualcosa di diverso per lui rispetto a noi.
Noi viviamo attimo per attimo, il nostro solo modo per viaggiare nel tempo è con la memoria, nel passato, rivivendo gli istanti in cui siamo stati presenti.
Anche il Dottore non fa viaggi nel tempo, ma lui non è immerso in un flusso unidirezionale come noi. Lui non rivive con la memoria: lui vive tutti i suoi istanti insieme.

Come avete visto nella mia confusa descrizione, il vivere nel tempo di Manhattan è alieno da noi, dal nostro modo di procedere, di concepire, di narrare. Moore si è quindi trovato nella difficoltà di raccontare questa percezione: usando un codice puramente verbale forse si può suggerire, ma se occorre visualizzare con immagini (e il fumetto è narrare per immagini e parole) i problemi si moltiplicano.

E infatti, non essendo possibile una rappresentazione multi temporale, quando deve fare sequenze più propriamente narrative Moore deve ricorrere (anche in quest’albo) a una più banale sequenza di flashback. Di più sembrava difficile si potesse fare.
Ma quando si passa alla sequenza riflessiva, all’espressione della propria interiorità, la carenza di possibilità grafiche porterebbe a ciò che si deve evitare nel fumetto: dire che sta accadendo qualcosa, invece che farlo vedere.

Così Moore ha sfruttato qualcosa che già esisteva (la didascalia-pensiero) in modo diverso. I flashback narrativi con le immagini rimangono lì, necessari. Ma la vera novità sono le didascalie riflessive, in cui i diversi pensieri sono relativi a diversi tempi, coesistenti.
Si potrà obiettare che noi leggiamo questi pensieri, queste percezioni, in sequenza, uno dopo l’altro, e che potremmo ipotizzare che il Dottore ha “visioni” in sequenza del passato e del presente, più che una percezione della sincronicità. Ma il limite è la nostra modalità di percezione, e di conseguenza la modalità di rappresentazione attraverso un medium. Viviamo attimo dopo attimo, i nostri media sono impostati sul tempo che scorre.
E così, attraverso loro, possiamo avere una intuizione, un assaggio di ciò che percepisce, di come pensa Manhattan. Nei limiti in cui un uomo può leggere e raccontare il modo di pensare di Dio.

C’erano alternative?
Ovviamente sì, forse, probabilmente, ma non mi vengono in mente!
Sicuramente sarebbe apparso quasi ridicolo l’uso delle altre modalità di espressione del pensiero nel fumetto, ovvero il balloon con pipetta a bolle o la frase scontornata e “galleggiante in aria”.
La seconda modalità prevede una invasione dello spazio disegnato abbastanza forte, e nella mia (limitata) esperienza lo ho visto utilizzato  per lo più per singole frasi e per effetti come la telepatia, più che come espressione del proprio pensiero in un soliloquio.
La prima modalità è ugualmente invasiva, e con un gusto più retrò e di livello “più popolare”. Watchmen è immerso negli anni ’80, e fumetti paralleli (Ronin e Dark Knight Returns di Miller, solo per fare un esempio di fumetto di alto livello pressoché contemporaneo) hanno fatto accettare la modalità didascalia-pensiero come innovazione più “adulta”, “sperimentale” (se queste parole non fossero ambigue in testi che si rivolgono a un pubblico più ampio possibile).

In ogni caso, questo IV albo è l’unica occasione per raccontare pensieri in tutta la saga di Watchmen. Le didascalie, lo abbiamo detto altrove, trascrivono scritture, frasi, mai pensieri.
Il pensiero è qualcosa di chiuso in ciascun uomo, tranne che per Manhattan, che è ormai diverso dall’uomo.
Il messaggio che siamo soli, l’idea dell’umanità per Rorschach, trova la sua visualizzazione più discreta, ma più chiara, proprio in questa assenza di lettura dei pensieri altrui.
La chiara banalità del nostro vivere.

PS. Il vero grande dubbio che mi riprende ogni volta che leggo Watchmen è questo: ma se il Dottor Manhattan vive contemporaneamente tutti gli istanti, come può non sapere chi sia il colpevole, che Laurie su Marte gli farà cambiare idea su una cosa importante etc?
Due le risposte: non si può pretendere troppo anche da Moore è la prima. Si è inventato una “nube di tachioni che risalgono il tempo” che confonde le percezioni di Manhattan, e che fa una sorta di “interferenza” tra Manhattan del “presente” e i Manhattan del "futuro". Soluzione debole, simile al “blocco temporale di alcuni secoli” ideato da Isaac Asimov ne “La fine dell’Eetrnità”. Niente di più che un escamotage narrativo per permettere a noi la narrazione.
La seconda mi piace di più, anche se viste le posizioni del Bardo di Northampton sul “parlare di Watchmen” resta a livello di ipotesi: il rapporto tra il Dottor Manhattan e Laurie ricalca in alcuni aspetti quello esistente tra V ed Evey in V for Vendetta. Pur essendo una sorta di superuomo, V ha una pianificazione del futuro molto simile a quella che potrebbe avere Manhattan. V ha previsto tutto, e in questa prospettiva “educa” Evey. Manhattan su Marte, tachioni o non tachioni, dovrebbe già sapere quale sarà l’evoluzione di Laurie e del mondo, e quello che fa è a uso e consumo di quelle creature limitate che sono gli esseri umani.
Forse il Dottore sa tutto, e si limita a far finta di non sapere niente, come nella canzone di Dylan che fa da epitaffio al primo albo (con le opportune differenze). Solo così può permettere agli umani di vivere le loro vite, per essere quella “forza imparziale e del tutto indifferente” che Nixon spera sia dalla parte “giusta” in caso di guerra.
(e se ne volete sapere di più, leggetevi il mio vecchio ma dorato articolo su Watchmen vent'anni dopo, Lavieri, 2006, a cura di SmokyMan)

Le immagini sono qui per servire da base per l’analisi, e sono tratte da Internet o da Moore-Gibbons, Watchmen\Sotto la maschera, I Classici del Fumetto di Repubblica Serie Oro 26. Copyright degli aventi diritto.